-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Se pensavate che il funerale dei Casamonica e il padre di Manuel Foffo sarebbero stati gli ultimi esempi della Rai Grand Guignol, vi siete evidentemente sbagliati. Nel salottino di Porta a Porta, il padrone di casa, Bruno Vespa, ha deciso di ospitare Giuseppe Salvatore, detto Salvo, Riina, il rampollo di uno dei più spietati criminali di tutti i tempi. L’occasione non era l’approfondimento di una notizia, che sarebbe stata una motivazione legittima per quanto esposta a valutazioni critiche di opportunità. Si promuoveva solo un libro, una motivazione deprecabile perché al pessimo messaggio etico (l’esposizione pubblica del figlio di un boss che non sembra aver introdotto alcun elemento di valutazione critica personale nel dibattito sulla mafiosità, soprattutto in relazione alla figura paterna e alla sua stessa storia personale) si accompagnava una spregiudicata operazione commerciale.
Il figlio del boss di Cosa Nostra, condannato per mafia in primo grado a circa 14 anni, ridotta poi a 9 anni in secondo, avrà un ritorno economico dallo spazio che gli è stato offerto da Rai uno, attraverso il potente strumento di un talk show finanziato dagli abbonati, compresi quelli che in famiglia hanno avuto qualche vittima di mafia: un vero e proprio capolavoro di sensibilità e di moralità. La televisione pubblica ha avuto grandi meriti nella crescita di questo paese, a cominciare dalla diffusione della lingua italiana. Per questo si paga il canone, cioè per tenere in piedi una struttura (o forse dovremmo dire, carrozzone?) che dovrebbe garantire ai telespettatori un pubblico servizio (e sulla definizione incombono pochi dubbi visto che il diritto di sciopero per i lavoratori della Rai è limitato dalla stessa legge che si applica, ad esempio, nei trasporti). Il canone dovrebbe affrancare dalla necessità di monetizzare lo share, l’audience, lasciando alle tv commerciali il compito di inseguire gli ascolti e attraverso quelli migliorare la raccolta pubblicitaria, da un punto di vista quantitativo (i minuti riservati agli spot) e qualitativo (le tariffe applicate).
Ma nella versione “vespiana” l’immagine del servizio pubblico si appanna e prevale l’aspetto mercantilistico. Ci sono giornali che hanno intervistato quel signore ma non incassano due miliardi dagli italiani, vanno in edicola e sgomitano all’interno di un mercato concorrenziale: tutte esigenze con cui la Rai non deve (o deve solo parzialmente) fare i conti. Se queste sono le premesse, il concetto di informazione cambia e se l’etica è strumento essenziale per qualsiasi media, se il rispetto delle regole della deontologia professionale dovrebbero essere comandamenti inderogabili per tutti i giornalisti, tutto questo vale ancora di più per la televisione di Stato che quando affronta determinati argomenti dovrebbe sempre partire dal rispetto per le vittime, evitando nel tentativo di illustrare le varie sfaccettature del fatto di offendere la sensibilità di chi da quel fatto ha subito un danno irreparabile.
L’informazione non può non partire da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, da tutto quell’universo bagnato dal sangue di vittime illustri come Pio La Torrre, Rocco Chinnici, Boris Giuliano e di altre meno note ma non per questo cancellabili dalla biografia di una nazione che non ha saputo ancora vincere la battaglia contro la mafia. I racconti delle carezze di un padre al figlio producono in chi li ascolta una reazione carica di tenerezza ma quelle mani di cui parlava l’ospite di Vespa sono le stesse che hanno ammazzato decine e decine di persone; la bocca di quel boss dopo aver pronunciato parole dolci al suo figlio prediletto, ordinava di sciogliere nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo. E’ lo stesso uomo che con spietato cinismo giustificava quegli atti aberranti con una frase indegna per un essere umano: “I bambini muoiono anche in Kosovo. La guerra è guerra”.
E’ lo stesso uomo che a Sant’Erasmo si è inventato la camera della morte, dove le persone venivano portate e sciolte nell’acido. È il carnefice di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, di poliziotti, di carabinieri. Con la sua scelta Vespa ha riproposto a tutti noi che paghiamo il canone un tema che riguarda anche il senso del vivere insieme: possiamo accettare questa qualità di servizio pubblico? Possiamo accettare una televisione che parla ai carnefici e non alle vittime? Che promuove libri e scrittori con tale indifferenza, come se si trattasse di assorbenti igienici o dentifrici anti-placca? Qual è lo spessore deontologico che emerge da questa idea di diritto di cronaca? Siamo al negazionismo? Al vilipendio delle vittime? All’abuso commerciale?
“Amo mio padre e non sono io che devo giudicarlo. Io giudico invece ciò che mi hanno trasmesso i miei familiari cioè il bene, il rispetto e altri valori. Se io oggi sono la persona che sono – ha aggiunto – lo devo ai miei genitori. Al di fuori di ciò che dicono le sentenze c’è una persona umana. Perché dovrei dire che mio padre ha sbagliato? Per questo c’è lo Stato, non tocca a me”, ha concluso. Affermazioni che lasciano sgomenti perché le sentenze parlano della stessa “persona umana” di cui parla il figlio. Comprensibile il suo affetto a livello privato, molto meno l’ostinazione a non voler prendere atto che quel suo genitore aveva e promuoveva una idea inquinata del “rispetto” e degli “altri valori” che gli ha insegnato, valori che la mafiosità declina in maniera diversa (infame) rivestendoli con gli stessi sostantivi. Non c’è traccia di una civile presa di coscienza, al contrario c’è l’affermazione orgogliosa della difesa di un padre che si è conquistato il rispetto mafioso ma non può ambire al nostro, quello delle persone perbene. Con sconcertante faccia tosta dice di osservare il quarto comandamento, “onora il padre e la madre”. Non riuscendo a capire che quel comandamento non vale quando il padre ha continuamente violato il quinto: “Non uccidere”. Ma lui, il figlio del boss, i comandamenti “non li prende in blocco”. I telespettatori, invece, hanno dovuto sopportare in blocco la promozione di un libro che alla narrativa contemporanea non aggiungerà nulla. Molto, al contrario, aggiungerà al cattivo gusto e al pessimo uso dello strumento televisivo. E non vale in questo caso nemmeno la filosofia del telecomando: se non mi piace, cambio. In questo caso l’alternativa doveva essere risolta alla radice non presentando sullo schermo questo signore.
Momento oscuro per la storia della Rai. Non si confonda quello che è accaduto ieri con la libertà di informazione perché solo di promozione si trattava, in cinico e probabilmente poco elegante gergo giornalistico, di “marchetta”. Momento oscuro che ha, però, svelato l’esistenza di una “Rai parallela”: quella di presidente (Monica Maggioni) e direttore generale (Antonio Campo Dall’Orto) che sarebbero dovuti intervenire con fermezza ma non l’hanno fatto, e quella “privata” di Vespa che è andato tranquillamente in onda. Ma se le cose stanno così, allora Matteo Renzi ci faccia uno sconto sul canone e se Vespa vuole continuare ad andare in onda con la sua “tv personale” lo faccia finanziandosi da solo: in questi anni, in fondo, ha guadagnato abbastanza.
La Fondazione Antonino Capponnetto di Firenze (che gira le scuole d’Italia, come ha fatto il giudice Antonino Capponnetto negli ultimi anni della sua vita, per rendere concreta la lotta alla mafia) propone un boicottaggio del libro che parte direttamente da Corleone, e che è visibile a questo link http://sentinelleveneto.voxmail.it/rs/content/boicottiamo_il_libro_riina.jpg