-di ANTONIO MAGLIE-
Qualche giorno fa, accolto da scene di guerriglia urbana, Matteo Renzi è calato a Napoli per annunciare che entro il 2019 l’area di Bagnoli sarà risanata. Bene, bravo, bis, nel senso che ora lo attendono a Taranto e fra qualche tempo anche a Viggiano. Perché dei processi di industrializzazione che avrebbero dovuto avvicinare il Sud al Nord del Paese sono rimasti soltanto i disastri ambientali, i problemi ecologici, le cartelle sanitarie che raccontano di impennate nel numero di tumori diagnosticati laddove un tempo (Brindisi, ad esempio) una fabbrica chimica avrebbe dovuto portare il benessere. Chissà se percorrendo le strade di Napoli nella sua auto blindata, il presidente del Consiglio ha avvertito di essere finito dentro a una bizzarra macchina del tempo che produce un effetto strampalatissimo: all’apparenza ti sembra di vivere nel 2016, nella realtà sopravvivi nelle condizioni economiche del 1951. Perché, e questo dato lo ha svelato l’Istat, il Mezzogiorno di questo paese, dal punto di vista della ricchezza individuale ha fatto un salto all’indietro di sessantacinque anni. Non sembra ma è così.
I numeri possono anche essere fuorvianti, ma il quadro che tratteggiano normalmente è abbastanza realistico. L’Istituto Nazionale di Statistica ci dice che attualmente il Pil pro capite degli italiani ammonta a 25.256 euro. Ma questo è il dato medio e all’interno di esso alcuni stanno meglio, altri stanno peggio. Nel Nord-Ovest, infatti, la cifra sale a 30.821 euro; nel Sud scende a 16.761 euro. In sostanza, un abitante del Mezzogiorno può contare su una ricchezza individuale pari al 54 per cento di quella di un connazionale residente a Torino e dintorni. E’ la misura più classica e chiara del divario tra le due Italie; il segno di un precipitare lento e inesorabile: ancora nel 2000 eravamo al 58 per cento, nel 2013 già al 55,2. Un divario che, sia detto per inciso, non è una maledizione della storia: è sempre esistito ma non nelle attuali dimensioni. Nel 1891, ad esempio, il reddito pro-capite nel Sud era pari al 93 per cento di quello del Nord; vent’anni dopo era sceso all’82. Ora siamo tornati al 1951 quando nel Mezzogiorno la ricchezza individuale si attestava intorno al 53 per cento di quella del Nord.
Sono cifre che segnalano il fallimento delle politiche meridionalistiche, che indicano come quella che era la vera questione nazionale sia scomparsa dalle agende politiche finendo per accentuare un dualismo che incide sul futuro di un Paese che avrebbe a sua disposizione una grandissima risorsa e, invece, anno dopo anno, la trasforma nella propria palla al piede. Sbloccare i lavori pubblici, come sostiene Renzi in questi giorni di polemica sul Totalgate, può anche essere cosa apprezzabile. Ma non è certo con qualche cantiere legato alle perforazioni petrolifere o con la semplice ripulita di Bagnoli (peraltro doverosissima) che si risolve quella che un tempo veniva chiamata la Questione Meridionale. Ci vuole di più, molto di più. Ci vuole un progetto, una strategia, un piano, la mobilitazione di tutte le energie disponibili per far ripartire un territorio che si sta spegnendo nell’indifferenza del Paese e nella rassegnazione dei suoi abitanti.
L’evocazione di interventi straordinari può sollecitare pessimi ricordi e facili ironie. Ma per quanto sbagliati e per quanto fonti di pubblica (e privata) corruzione, quei tentativi un po’ attenuarono il dualismo tanto è vero che il momento in cui, nel secondo dopoguerra, le due Italie apparvero sul punto di potersi incontrare fu nel 1973 quando il Pil pro capite del Sud era il 63 per cento di quello del Nord. E’ una esperienza da non ripetere? Va bene. La Cassa per il Mezzogiorno, parafrasando quel che diceva un illustre meridionalista pugliese riferendosi all’acquedotto, diede più da “mangiare” che da consolidare lo sviluppo? Va bene. Le partecipazioni statali furono un gran collettore di mazzette? Va bene. Ma fatta l’autocritica e preso atto che non è con la logica delle cattedrali nel deserto che si crea un popolo di credenti praticanti, il governo (e Matteo Renzi in primo luogo) dovrebbe fare un salto di qualità e articolare una proposta organica che non si esaurisca nella semplice rivendicazione orgogliosa dell’ “io sblocco i lavori”. Perché poi i cantieri sbloccati chiudono, la gente torna ad allungare le liste dei disoccupati e il Sud continuerà a perdere terreno rispetto al Nord. Sarebbe bello capire se questo governo ha una vera strategia meridionalistica, se vuole andare oltre gli spot da prima serata per misurarsi con i problemi, le contraddizioni ma anche le energie di un’area che può dare molto a patto che venga stimolata e la stimolazione in economia ha un nome preciso: investimenti. Si tratta di capire se questo governo vuole effettivamente affrancare il Sud da quella condizione di subalternità che un garibaldino meridionale così descriveva in una lettera al Generale: “Il Borbone ci manda i briganti armati, briganti civili il governo: tra gli uni e gli altri il popolo è schiacciato nel modo più feroce del mondo”. Il rilancio produttivo ed economico del Mezzogiorno è sotto molti aspetti una vera e propria lotta di liberazione.