Se questo è un mondo…

 

-di ANTONIO MAGLIE-          

I “Panama Papers” stano producendo una bufera decisamente benefica. Non solo per la possibilità che gli stati hanno di recuperare una parte dell’evasione fiscale, ma perché offrono una chiave di lettura della crisi da cui stiamo provando a uscire, più giusta e corretta, fuori dalle consuete orazioni e perorazioni neo-liberiste di capi di stato e presidenti di organizzazioni economiche internazionali, più vicine non al semplice sentire della gente, ma al loro “soffrire”. Ad esempio, in un momento in cui si scopre che tanti quattrini, tante risorse sono state sottratte a impegni produttivi per essere utilizzate semplicemente “per far soldi con i soldi” semmai evitando di pagare il dovuto al fisco, appare decisamente fuori contesto la diagnosi rilasciata da uno dei tanti medici pietosi che da anni occupano (non sempre trionfalmente) il palcoscenico globale, cioè il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde per la quale stentiamo a uscire dalle difficoltà a causa di “investimenti bassi e disoccupazione alta”. A parte il fatto che la seconda è conseguenza dei primi, è anche evidente che gli investimenti sono bassi perché una parte degli euro e dei dollari che potevano essere utilizzati per finalità produttive e, quindi, collettive, sono stati “inghiottiti” dal buco nero dei conti offshore.

            Anzi, se rileggiamo alla luce dei “Panama Papers” le analisi di alcuni importanti docenti di economia, ci rendiamo conto che il pentolone maleodorante scoperchiato da questa gigantesca fuga di notizie può, a tutti gli effetti, essere considerato come una delle cause principali di una crisi che non sembra aver fine: probabilmente, non l’ha provocata (o l’ha provocata solo in parte), sicuramente l’ha allungata. D’altro canto è di qualche anno fa il quadro tratteggiato da Gabriel Zucman professore della London School of Economics il quale fissava a 7.600 miliardi di dollari, l’8 per cento della ricchezza globale, la quantità di risorse finanziarie “parcheggiate” nei paradisi fiscali. E a proposito della Svizzera spiegava che le banche di quel paese gestivano 1.800 miliardi di euro che non facevano capo a cittadini residenti; che il 60 per cento dei conti era controllato attraverso società panamensi, trust domiciliati alle Isole Vergini britanniche e fondazioni del Liechtstein, cosa che rendeva impossibile l’individuazione dei veri titolari.

            E poco più di un paio di anni fa il Boston Consulting Group fissava addirittura a 8.500 miliardi di dollari la ricchezza nascosta nei “paradisi”, l’unica ricchezza  costantemente cresciuta nel periodo della crisi al ritmo di oltre il sei per cento l’anno, cosa che induceva quegli analisti a sostenere che entro il 2017 il “tesoro” occultato avrebbe raggiunto la ragguardevole cifra di 11.200 miliardi di dollari. I “Panama Papers” ci aiutano a dire con chiarezza che la crisi non è stata uguale per tutti, non ha avuto l’effetto della “livella” di Totò; al contrario, è stata un portentoso acceleratore di ricchezze (al riparo da occhi indiscreti) per alcuni (pochissimi) mentre per la gran parte della popolazione mondiale si è rivelata solo causa di ulteriore mortificazione economica. Pochissimi hanno festeggiato mentre tutti gli altri tiravano la cinghia e alcuni non riuscivano a tirare neanche quella perché già in precedenza non avevano avuto le disponibilità per acquistarne una. Come ha denunciato l’ultimo rapporto Oxfam una cui sintesi abbiamo pubblicato sulla rivista della Fondazione Nenni (L’articolo1), “un complesso sistema di paradisi fiscali e un’industria di gestione patrimoniale in ascesa permettono a queste risorse di rimanere intrappolate in alto, fuori dalla portata della gente comune e senza ricaduta alcuna per le casse pubbliche”. Risultato: nel 2015 sessantadue persone nel mondo avevano le ricchezze che mettono insieme altri 3,6 miliardi di abitanti di questo pianeta.

            E’ evidente che il “complesso sistema di paradisi fiscali” richiama immediatamente le responsabilità delle banche (non tutte, ovviamente) che non hanno certo avuto un ruolo neutro nell’esplosione della crisi e non sembrano totalmente immuni da colpe nel suo prolungamento. E non solo per il credito che con il contagocce arriva ai legittimi destinatari, ma anche per il sostegno assicurato a chi per arricchire sé stesso ha deciso di impoverire un po’ gli altri. In causa vengono chiamate le élites politiche che governano anche paesi importanti. In Islanda quasi il dieci per cento della popolazione in poche ore ha firmato una petizione per mandare a casa il premier, David Gunnlaugson che capito il messaggio, si è prontamente dimesso; in Gran Bretagna David Cameron fatica a evitare gli “schizzi” delle rivelazioni relative al padre broker, Ian, in Francia la nuova Giovanna d’Arco, Marine Le Pen, ha trovato negli elenchi dei Panama Papers non solo il padre, Jean Marie, ma anche alcuni suoi stretti collaboratori, Vladimir Putin per schivare le accuse ha tirato in ballo il complotto della Cia mentre il leader cinese Xi Jinping, è stato più sbrigativo: ha semplicemente fatto scattare la censura.

            Ma la realtà più sconcertante è data dal contributo offerto al sistema dalle banche. Alcune hanno smentito, altre hanno sostenuto che si tratta di cose vecchie ormai sanate attraverso processi di riforma e autoriforma. Fatto sta che tornano a circolare nomi particolarmente “autorevoli”. E numeri altrettanto autorevoli. In Germania, ad esempio, gli istituti di credito coinvolti sarebbero ventotto che avrebbero provveduto a creare 1.200 società di comodo. Nel gruppo, “insegne” famose, finanziate dallo Stato o salvate dallo Stato: forse per questo Jens Weidman, governatore della banca centrale, sempre piuttosto incline a impartire lezioni, soprattutto agli italiani, questa volta tace. Resta in tutti noi un’amarezza che parafrasando Primo Levi, possiamo così sintetizzare: “Se questo è un mondo…”

antoniomaglie

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