-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Gli ultimi attentati di Bruxelles hanno rinfocolato le polemiche sul rapporto tra terrorismo e flussi migratori. La chiusura della rotta balcanica con l’accordo tra Unione Europea e la Turchia di Erdogan; ora lo scivolamento dell’Austria verso metodi alla Orbàn con la polizia e l’esercito a guardia della frontiera nazionale, tra le proteste altoatesine, le manifestazioni “no border” e il fallimento implicitamente dichiarato dal trattato di Schengen. L’equazione, sbandierata dalla destra xenofoba e populista è semplice: troppi migranti, poca sicurezza e non fa nulla se gli assassini di Charlie Hebdo, del Bataclan, dell’aeroporto e della metro di Bruxelles in realtà non avevano varcato il mare su qualche gommone o qualche “carretta”, ma erano dotati di passaporti europei. Infine, l’accusa finale e definitiva da parte di chi ha sollecitato o già attuato l’abbandono di Schengen: la mancanza di una politica europea in grado di governare flussi migratori destinati a rimanere impetuosi per molti anni. Bassam Elsaid è un volontario della Croce Rossa Italiana e fa il mediatore culturale; parla perfettamente l’arabo.
Lei pensa che ci sia connessione tra migranti e terrorismo?
“Assolutamente no. Io sono nato in Italia e sono di seconda generazione, vedo l’immigrazione da diversi punti di vista. Sono nato e cresciuto in Piemonte, a Cuneo. Una realtà dove sicuramente è più difficile integrarsi. Il vero problema è l’integrazione e la coesistenza di due mondi. Chi vuole commettere atti terroristici non rischia la propria vita in un barcone, viaggia in prima classe. Il vero punto di crisi è rappresentato dalle seconde, le terze e le quarte generazioni. Salah Abdeslam, la mente degli attentati a Parigi, è nato a Bruxelles, è cresciuto in una famiglia francese di nazionalità ma belga di residenza. L’Europa ha un reale problema di integrazione con i figli delle ultime generazioni che vivono purtroppo come un fardello i problemi delle prime”.
Tutti i giorni durante la Sua attività con la Croce Rossa è a contatto con situazioni difficili. Qual è e quale è stato il clima nei centri accoglienza dopo Parigi e Bruxelles?
“Tutti i giorni a livello professionale ho a che fare con immigrati, transitanti, dublinati (i rifugiati costretti a soggiornare in un determinato paese anche se non vogliono, perché è qui che sono stati identificati, ndr) e di minori non accompagnati. Sono realtà caratterizzate da così tanti problemi quotidiani che il terrorismo finisce quasi per diventare una questione marginale. I loro obiettivi, la volontà di raggiungere un certo stato sociale, il miglioramento della loro condizione sociale sono le loro priorità. Sia il migrante economico sia il rifugiato non considerano il terrorismo come una loro priorità né tanto meno come una loro colpa”.
Qual è l’identikit del migrante con cui lei viene normalmente a contatto? Che bagaglio di sogni o speranze porta con sé?
“Dipende molto dal paese di provenienza, se eritreo, se egiziano, se siriano o etiope. Ci sono minori non accompagnati che arrivano qui già con un preciso carico di responsabilità consegnato loro dalle famiglie: c’è il debito del viaggio da saldare e l’urgenza della ricostituzione del nucleo familiare e della costruzione di una casa. Confidano di integrarsi, di possedere una bella auto, di pagare la dote per sposare una ragazza di ceto medio. Sono principalmente egiziani e seguono le orme della prima generazione immigrata in Italia. Sono ragazzi che hanno circa 30- 35 anni. L’idea è quella di trascorrere una decina di anni in Italia, fare fortuna e tornare a casa. Ma a questo punto si apre il capitolo antropologico del ritorno che solitamente non avviene. Sono a contatto poi con eritrei, somali, siriani costretti a scappare dai loro paesi funestati dalle guerre e schiacciati sotto il peso di insopportabili dittature. È una immigrazione diversa. I siriani sono molto istruiti, hanno un approccio diverso alla vita, hanno famiglie molto numerose, con le quali molto spesso affrontano il viaggio. L’Italia non è mai la loro meta, vogliono andare in Svezia, in Norvegia, in Danimarca, paesi dove possono avere più contatti familiari. La loro è una condizione di fuga, sono segnati dalla rassegnazione di non poter stare a casa propria. Sono consapevoli delle difficoltà dell’Italia e delle difficoltà giuridiche che devono fronteggiare. Il docente di economia all’università di Damasco, costretto a fuggire, in Italia non può insegnare e si trova magari costretto a fare il kebabbaro. E’ evidente che non sopporteranno a lungo questa condizione, al pari dei ragazzi italiani dotati di laurea e dottorato, costretti ad accettare lavori ampiamente al di sotto ellle loro conoscenze e perciò poco stimolanti. È necessario che gli stati che li ospitano come Francia, Italia, Grecia, Svezia siano in grado di offrire delle alternative a tutti, indipendentemente dal Paese di provenienza ed è evidente che se ciò non avverrà, i migranti diventeranno un problema. Purtroppo viviamo in Paesi non in grado di accettare che si possa avere il Colonnello Mustafà o il primario Yong o l’ambasciatore Abdul. Sarà dura perché diventerà sempre più necessario offrire un’opportunità a questi ragazzi, sempre più urgente assorbirli nelle nostre culture”.
Ritiene possa essere possibile una vera integrazione?
“Sono pienamente consapevole di quanto possa essere complesso il percorso. L’integrazione presuppone disponibilità da parte di tutti, da parte di chi arriva e da parte di chi riceve. Spesso si cade nei cliché del tipo “se un cristiano girasse in Egitto o in un paese arabo”. Amo ricordare che la diversità è quasi più tipica dall’altra parte del mondo che dell’Italia. Oggi qui soffriamo la diversità. In Palestina ebrei, musulmani e cristiani hanno convissuto per millenni senza mai problema. I cristiani sono il 13% della popolazione egiziana, il Libano è un paese con una differenza etnica e religiosa molto marcata. Il mondo arabo ha dato i natali alle Chiese più antiche. L’integrazione presuppone dei grandi passi e una grande apertura culturale. È un percorso che si può fare se entrambe le parti cedono su qualcosa”.
Oltre ad essere a contatto con i migranti, considerati oggi in Occidente come “pecore nere”, Lei è anche musulmano. Come giudica le reazioni del mondo islamico all’attentato di Bruxelles?
“Ogni volta che avviene un attentato io personalmente sono quasi sempre costretto a chiudere i miei contatti con l’esterno. Mi trovo a dovermi giustificare per qualcosa che non mi appartiene. Ho amici che mi chiedono: “perché ci odiate”. Dopo l’attentato a Charlie Hebdo al mio risveglio trovai 72 messaggi sul mio cellulare. Amici o amici di amici che mi chiedevano spiegazioni o approfondimenti. Il processo di integrazione non sarà certo agevolato se continueremo a considerare il musulmano come una persona che deve sempre giustificarsi per qualche cosa. La seconda generazione non accetta questa condizione: è istruita, spesso titolare di un’istruzione medio o medio-alta. E può replicare affermando che le vittime del terrorismo nel mondo arabo sono molte di più. Dopo Charlie Hebdo, a quattro ore di fuso orario, è saltata in aria l’accademia di polizia nello Yemen, sono morte 70 persone. Non se ne è mica parlato. Eppure è stato un atto terroristico seguito dalla classica rivendicazione. I leader del mondo però erano impegnati a marciare per Parigi e non per lo Yemen. Io stesso vivo questa situazione con molta sofferenza, non mi piace credere che ci siano morti di serie A e di serie B e non mi piace sentirmi costretto a dare giustificazioni per i morti di serie A. Vedo trasmissioni televisive dove Salvini, abituato a questo tipo di show, attacca un ragazzo giordano sui temi religiosi, nonostante questo ragazzo risponda di essere un architetto non un teologo. Lui può parlare della fede islamica come Salvini di quella cattolica. La religione islamica è una religione di pace. Quando ci salutiamo diciamo “assalam aleikum”, pace a te. La risposta è “altrettanto pace”. Chi si fa saltare in aria è un suicida per la religione musulmana e non può avere accesso al paradiso”.
In Italia si fa ancora fatica a comprendere o accettare i flussi migratori. Qual è la percezione dell’immigrazione? È cambiata negli anni?
“Io mi occupo di immigrazione da circa cinque, sei anni. Sicuramente è aumentata in relazione alla proliferazione delle guerre. In questi casi, le transumanze umane sono quasi naturali: si tratta di un fenomeno storico. Per quanto riguarda gli egiziani, ai quali sono affine per cultura e per aver lavorato alla Cooperazione al Cairo per un anno, i ragazzi che sbarcano hanno aspettative sempre più alte. Chi è riuscito a fare i soldi negli anni ‘80 e ‘90, mi riferisco anche per esperienza diretta alla mia famiglia, rappresenta all’esterno una situazione economica che oggi non c’è più. Le aspettative di chi sbarca principalmente degli arabi dell’area del Maghreb vengono oggi disattese dalla realtà dei fatti. Con conseguenti pericolose ricadute: sfruttamento minorile, prostituzione nella zona di Roma Termini e una vasta serie di fenomeni che finiscono per concimare il terreno fertile di una criminalità locale già abbastanza sviluppata”.
Come è fatto un centro di accoglienza?
“Spesso pensiamo ai centri di accoglienza come un luogo dove le persone vengono portate all’ammasso. Non è così, è un luogo dove tante e diverse forme sofferenza vengono a contatto. È un’antologia di storie. Personalmente, non porto mai a casa grandi soddisfazioni o grandi risultati ma solo tante piccole soddisfazioni. Lavoro in un impasto umano composto da tanta gioia e altrettanto dolore. Sicuramente è un posto complesso”.
Siamo ormai in un clima da caccia alle streghe. Papa Francesco sarà a Lesbo, venerdì 15 aprile, assieme al Patriarca Ecumenico Bartolomeo, per portare un forte messaggio di solidarietà ai profughi, sensibilizzare la comunità internazionale e chiedere la fine di tutti i conflitti nell’area del mediterraneo. Cosa ne pensa? Crede sia necessario l’intervento del Papa per favorire l’integrazione?
“Da musulmano mi lascio andare spesso a una battuta: dopo che avrà finito in Vaticano, lo prendiamo in prestito noi così sistema anche le falle del nostro sistema. È un Papa eccezionale, uno dei migliori di cui ho memoria. Tutti i suoi ultimi interventi sono stati eccezionali. Per me, musulmano, Papa Francesco è un esempio”.