-di ANTONIO MAGLIE-
E’ stato il primo “segnale” di attenzione lanciato verso quel bacino politico (il centro-destra) che il presidente del consiglio, Matteo Renzi, si proponeva di svuotare. Solo dopo, molto dopo sono arrivati Verdini e i suoi amici. Eppure che fosse un errore averla cooptata in un governo senza alcuna giustificazione specifica al di là del ruolo di imprenditrice e di figlia di Guidalberto Guidi, deus ex machina di Ducati Energia, era chiaro a tutti. Ad esempio, a Stefano Fassina che stroncò la scelta. Ora il governo grazie a lei è al centro della più grande bufera della sua non lunghissima esistenza, lavorato ai fianchi dalle opposizioni e da una indagine che partendo dalla procura di Potenza riapre una questione che tutti pensavano potesse essere archiviata dopo il sostanziale “tramonto” di Silvio Berlusconi. Invece l’ormai ex ministro, Federica Guidi, l’ha fatta riesplodere fragorosamente, all’interno di un governo già indebolito dalle vicende familiari di Banca Etruria.
Perché se in principio era il padre (nulla di evangelico, in questo caso ma il semplice riferimento all’illustre genitore di Maria Elena Boschi, finita anche lei, seppur di “striscio” in questa indagine lucana), adesso è il fidanzato (Gianluca Gemelli). Sullo sfondo sempre il solito problema: il conflitto di interessi. Una questione di petrolio, una telefonata birichina all’amato in affari petroliferi: “L’emendamento passerà”. Roba della fine del 2014 che, però, sembra interessasse molto Gemelli. La ministra, dopo una giornata ribollente, si è dimessa inviando a Renzi una breve lettera: “Caro Matteo, sono assolutamente certa della mia buona fede e correttezza… credo tuttavia necessario, per una questione di opportunità politica, rassegnare le mie dimissioni dall’incarico di ministro”. La risposta è stata altrettanto breve e la cosa rivela che le dimissioni sono state accolte (e probabilmente sollecitate) con lo stesso sollievo che accompagna l’estrazione di un dente troppo dolorante: “Rispetto la tua scelta personale sofferta, dettata da ragioni di opportunità che condivido: procederò nei prossimi giorni a proporre il tuo successore al capo dello stato”. In un verbo (“condivido”) tutto il sollievo per la rimozione di un problema decisamente fastidioso con le elezioni amministrative in arrivo e soprattutto con il referendum sulle trivelle alle porte (Renzi ha probabilmente regalato ai promotori della consultazione il più grande spot elettorale visto che lo scandalo ruota proprio attorno alle perforazioni a fini energetici).
Ma il presidente del Consiglio può aver limitato le ricadute contingenti dello scandalo, ma non ha rimosso le cause del problema, che sono tutte lì. In questi anni di governo, il Presidente del Consiglio ha deciso di tenersi alla larga dai sindacati e dai sindacalisti (e anche da altri soggetti che hanno come riferimento il sociale) che pure, a rigor di logica, possono rappresentare di più e meglio gli interessi collettivi. Al contrario, ha preferito circondarsi di donne e uomini che provengono dal mondo dell’imprenditoria assegnando a Giuliano Poletti il ruolo di ministro del Welfare (cosa c’entrasse con la ratio di quel ruolo non si è mai capito) e a Federica Guidi quello di titolare del dicastero dello sviluppo economico. Eppure ci sarebbero stati numerosi motivi per evitare quelle investiture, soprattutto la seconda. L’azienda di famiglia della ministra era in affari con lo Stato (Poste Italiane e Ferrovie) e, se parliamo di pubblico interesse, aveva largheggiato in materia di delocalizzazione (lei preferiva parlare di multilocalizzazione) delle attività produttive.
Negli anni della prima repubblica, i partiti hanno commesso tanti errori, ma si sono quasi sempre guardati dal cooptare nei governi uomini provenienti dalle imprese perché è evidente che quando si tratta di affari, l’interesse specifico, personale, di gruppo imprenditoriale, tende a prevalere su quello collettivo: si parla d’Italia pensando all’impresa, quando invece si dovrebbe parlare di impresa pensando all’Italia. La seconda, al contrario, è nata (?) nel segno del più mastodontico conflitto d’interessi: Berlusconi a Palazzo Chigi. Anche per questo ora fa un po’ sorridere Matteo Salvini che si scaglia contro l’attuale governo dopo aver partecipato con il suo partito a quelli che hanno “lanciato la moda”. E per carità di patria dovrebbe tacere anche Giorgia Meloni che, da alleata, ospitava tutti gli anni in estate alla sua festa (Atreju) il “trionfante Silvio” per non parlare degli esponenti (Scilipoti in testa) di quello che è ancora oggi il “partito proprietario” per antonomasia. Gli unici che potrebbero parlare sono quelli del Movimento 5 stelle, a patto che Gianroberto Casaleggio illustri con precisione e dovizia di particolari il rapporto tra la sua aziendina e il partito che ha fondato con Beppe Grillo.
Renzi avrebbe dovuto e potuto chiudere con questa pratica ma non lo ha fatto, anzi con l’aiuto dei Marchionne, dei Serra, dei Farinetti e le scelte di Guidi e Poletti ha provato ad accreditarsi negli ambienti imprenditoriali probabilmente pensando che in questo modo miracolosamente investimenti e occupazione sarebbero aumentati e l’Italia sarebbe uscita trionfalmente dalla crisi. Non è stato così. Al contrario grazie a quelle forme di accreditamento, oggi il governo appare debole e poco credibile, privo di un reale ancoraggio popolare e il Pd sempre più lontano da quello che era il suo elettorato di riferimento. Gli investimenti crescono poco, l’occupazione anche e i sondaggi appaiono decisamente lontani dal risultato delle Europee per mesi sbandierato dal presidente del Consiglio come la conferma della validità delle sue scelte politico-elettorali e come una indiretta legittimazione popolare che, però, non ha mai avuto. Nel frattempo le lobbies che nella prima Repubblica si aggiravano nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama e nelle anticamere di Palazzo Chigi, continuano, anche in questi tempi post-berlusconiani, ad avere accesso direttamente alle stanze dove si prendono le decisioni, le stanze dei bottoni, le avrebbe chiamate Pietro Nenni. Bisogna prendere atto che forse è meglio tenere finanzieri e imprenditori, cioè chi manovra soldi e potere, lontani dal governo, non perché non siano bravi o competenti (tutt’altro), ma perché un esecutivo dovrebbe con le sue politiche proporsi l’obiettivo di soddisfare l’interesse collettivo sintetizzando le diverse domande che salgono dalla società e che possono essere identiche a quelle delle imprese ma anche diverse o totalmente contrarie. Dovrebbe, insomma, essere al di sopra delle parti, non al di sotto. Una occasione che Renzi ha, però, già perduto.