-di Antonio Maglie-
Il festival bellicista scatenato dalle stragi di Bruxelles, favorito anche da politici nostrani (come Rambo-Salvini che si è scoperto guerrafondaio dopo aver fatto, al pari di Totò, un anno di militare a Cuneo), sollecita risposte di pancia attirando facili consensi. Il fatto è che, controllando le reazioni emotive (peraltro legittime e comprensibili), bisognerebbe cercare le ragioni profonde dei fenomeni, uscendo dalla retorica, buonista o cattivista che sia (l’una e l’altra fanno male alla ragione). La storia dovrebbe, anzi avrebbe già dovuto, insegnarci che quel che sta accadendo sfugge alle vecchie schematizzazioni, semplici e confortanti. Quando le Torri Gemelle vennero attaccate provocando alcune migliaia di vittime, la risposta dell’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, fu la guerra in Afghanistan e poi quella in Iraq. Risultato: quel che resta (e resiste) del vecchio apparato militare fedele a Saddam Hussein oggi gestisce buona parte delle attività belliche e terroristiche dell’Isis mentre l’area è diventata un generatore di instabilità. Dall’Afghanistan, poi, terra in cui da sempre gli europei che vi si sono avventurati sono tornati spennati, non ci si può ancora ritirare perché è molto probabile che il terreno di gioco, non appena liberato, venga occupato nuovamente dai talebani (oltre che dalle miriadi di tribù da secoli in lotta). Abbiamo più certezze e sicurezze dopo quelle due campagne? No. Abbiamo più incertezze e insicurezze? Sì e la conferma è venuta dagli attentati di Parigi e Bruxelles che erano stati preceduti da quelli di Londra e dall’attacco alla stazione di Atocha a Madrid. Allora, prima di guardare avanti (cioè alle iniziative da prendere), sarebbe opportuno voltarci indietro per capire da dove viene tutto questo.
Si dice: siamo in guerra. Il fatto è che in una guerra c’è un nemico che attacca, che invade un territorio. In realtà, il nemico in questo caso era già in casa. Chi ha seminato morte a Parigi e Bruxelles parla una lingua europea, una nostra lingua. Semmai, poi, parla anche una lingua araba. Capisce noi ma noi non capiamo lui. Mondi diversi e lontani? No, vicinissimi, tanto vicini che i “nemici in casa nostra” si muovono con passaporti comunitari, attraversano le frontiere in virtù degli accordi di Schengen. Sono, allo stesso tempo, estranei e consanguinei. In una intervista a “il Foglio” del 10 novembre del 2005, parlando della rivolta delle banlieues francesi, il giornalista tunisino Latif Lakhdar parlava di ragazzi disagiati “caduti tra due sedie, perché non si sentono francesi, parlano male o per niente l’arabo, hanno perduto la cultura dei genitori e per questa ragione si sentono emarginati sia in Francia sia nel loro paese d’origine”. Questo primo elemento può indurci a pensare che l’estremismo islamico non è una questione di vocazione ma, piuttosto, una occasione, una sorta di detonatore (l’uso del sostantivo non è casuale) attraverso il quale far esplodere una rabbia che ha mille volti ma nessuna identità culturale. Lo storico George Bensousson ha scritto un libro su “i territori perduti della République” e a sua volta il filosofo e sociologo Jean Baudrillard in un articolo apparso su “Liberation” sempre parlando di quei ragazzi di undici anni fa che incendiarono i sobborghi, sottolineava che il loro slogan era: “Fuck you mother” dove la madre da sfanculare era la Francia vissuta ormai come matrigna. E concludeva: “Tutto porta a considerare che queste sono le fasi successive di una rivolta che non è affatto vicina a concludersi”. Era l’11 di novembre del 2005 quando appariva questo scritto. Non c’è qualcosa di profetico?
Sì, certo poi si può anche dare la risposta che diede al giornale israeliano Haaretz, il filosofo Alain Finkielkraut, evidentemente già affascinato dalle ricette della destra per il recupero dell’identità nazionale: “La rivolta nelle periferie non è sociale, né economica, ma etnico-religiosa, opera di islamici arabi e neri”. Fu in qualche maniera la linea dell’allora ministro dell’interno, Nicolas Sarkozy che annunciò che avrebbe estirpato la “racaille”, la “feccia” dalle periferie. E la risposta che nella sua semplicità era un piccolo compendio sociologico, gliela diede un calciatore, Lilian Thuram, ricco ma non dimentico delle sue origini: “Noi non siamo feccia. Anche io sono cresciuto in una banlieue e non mi piace sentire la gente che parla di ripulire per portare ordine. Può darsi che Sarkozy non abbia pesato bene le parole ma le prendo come una offesa personale. Le violenze dei giovani fanno tristezza, per loro l’esibizione della forza è forse l’unico mezzo per essere presi in considerazione da chi governa”. Spesso nelle sue previsioni (con conseguenti azioni) “Sarko” ha preso delle colossali topiche: la Libia rappresenta il monumento alla sua ottenebrata visione politica.
Il fatto che la Francia sia, numericamente, la seconda stazione di reclutamento e partenza dei Foreign Fighters e che il Belgio sia la prima qualcosa vorrà pur dire. E forse avremmo dovuto prestare maggiore attenzione a quello che accadde nella notte tra il 27 e il 28 ottobre del 2005 quando due ragazzini di 15 e 16 anni, Zyed Benna e Bouna Traorè, terminata una partita di calcio, vennero inseguiti dalla polizia trovando riparo mortale in una cabina dell’energia elettrica. Nacque tutto lì, a Clichy-sous-Bois, banlieue abitata per l’ottanta per cento da immigrati, quaranta per cento di disoccupazione. Per tre settimane la République fu messa a ferro e fuoco da quella che Sarkozy avrebbe definito “feccia”. Oltre tremila fermi, quasi diecimila vetture incendiate, poco meno di trecento edifici dati alle fiamme. Un bilancio che indusse Abd Al-Rahman Al-Rashed, editorialista del giornale internazionale arabo “Asharq Al-Awsat” ad affermare che l’evento della morte dei due ragazzini, primo attribuito ai poliziotti (che a maggio dello scorso anno sono stati assolti) ma poi smentito dalle ricostruzioni (erano rimasti folgorati nella cabina), non poteva essere considerato la causa reale di tanta violenza: “Davanti alle società europee c’è un problema, che appartiene a milioni di cittadini, che non possono ignorare, come se abitassero in un paese lontano”. E a sua volta il tunisino Lakhdar segnalava: “Le moschee sono monopolizzate dagli integralisti, affiliate e gestite dall’organizzazione sunnita dei fratelli musulmani che promuovono fatwe contro la laicità dei matrimoni misti. In Francia ci sono inoltre circa dodicimila casi di poligamia che non è punita dalla legge, per rispettare la “cultura altrui”, rendendo ancor più difficile ogni possibile integrazione”.
Ma la chiave di lettura più chiara di quel che avvenne e che è alla base di quel che sta avvenendo, su scala più vasta e drammatica, oggi la fornì l’antropologo Marc Augé: “Per questi giovani che oggi manifestano con violenza la banlieue non è un nonluogo, bensì il loro luogo. Il posto dove vivono, dove comunicano con il loro linguaggio, con il loro modo di vestirsi. Ma la Banlieu è vissuta come un luogo di chiusura, e le strade per uscirne non sono sufficientemente aperte. Ciò che questi giovani rivendicano è sentirsi francesi, e che la Francia li consideri tali, poiché la maggior parte di loro incontrano molte difficoltà ad inserirsi nella vita professionale e sociale in generale. Hanno l’impressione di far parte della Francia senza esserne però parte; non è la banlieue ma la Francia intera ad essere percepita da loro come un non luogo”. Ora è l’Europa a essere per molti di loro, i più radicalizzati (che sono poi anche i più fragili secondo gli studi compiuti sui foreign fighters e sulle biografie degli attentatori suicidi), un nonluogo. E questa estraneità che si trasforma in ostilità nasce dal fatto che in tutti questi anni non è stata fornita la risposta che in una intervista a “il Manifesto” del 22 novembre del 2005, suggeriva il filosofo Etienne Balibar: “Le banlieues non hanno alcuna intenzione di rivendicare una separatezza culturale dalla società francese, non chiedono assolutamente la chiusura delle loro comunità contro la Repubblica. Al contrario si appropriano del suo linguaggio e della sua ideologia per chiedere uguaglianza. Per questo le loro rivendicazioni non sono di tipo comunitario, ma di tipo universalista”. E’ possibile che nell’estremismo islamico quei giovani abbiano trovato proprio quella risposta universalista trasformando violenza e morte negli strumenti per guadagnare l’eguaglianza e il riscatto di cui parlava Balibar e a cui, invece, avrebbe dovuto provvedere, con altri mezzi, lo stato democratico?
Perché è su questo terreno che emerge un’altra crisi: la crisi della diseguaglianza, della disparità, di un neoliberismo che ha travolto il vecchio compromesso socialdemocratico che facendo funzionare “l’ascensore sociale” consentiva anche di tenere sotto controllo le tensioni evitando che esplodessero in guerriglie o, peggio ancora, in guerre. Qualche tempo fa, “la Stampa” ha condotto un’inchiesta sui luoghi della rivolta francese e Mohamed Mechmace animatore a Clichy-sous-Bois di uno dei tanti circoli nati per spegnere la rivolta (“Ac le feu”) raccontava: “Pensavano che finita la guerra d’Algeria il futuro sarebbe stato di pace e di progresso”. Era la stessa speranza che nutrivano quei marocchini emigrati in Belgio e sistematisi a Molenbeek. Arrivarono a frotte nel 1964 grazie a un accordo tra i governi per il reclutamento di manodopera poco specializzata (una storia che ha riguardato anche noi italiani, con lo scambio braccia-carbone, con corollario di lutti e tragedie, Marcinelle su tutte). In quel comune diventato in questi giorni tristemente famoso, la colonia venuta dal Marocco è la più numerosa; l’ottanta per cento della popolazione complessiva (centomila persone) è fatta di immigrati; la disoccupazione ha raggiunto il tasso del 40 per cento; su cinque giovani immigrati o figli di immigrati, due non hanno lavoro; a Bruxelles il venti per cento della popolazione immigrata vive sotto la soglia di povertà, il 65 per cento dei giovani non termina gli studi.
Domanda: quel che sta avvenendo può anche essere il prodotto di un mondo in cui i ricchi son sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri ed emarginati? Quanta strada fa l’integrazione se le opportunità vengono garantite ad alcuni e negate a tanti altri? I dati di Oxfam dicono che nel 2015 l’1 per cento della popolazione mondiale detiene oltre il cinquanta per cento della ricchezza globale. Applicando queste percentuali alla popolazione e al Pil si giunge a conclusioni sconfortanti: quarantamila miliardi di Prodotto sono nelle mani di settanta milioni di persone, una nazione appena più grande dell’Italia (il cui Pil è pari a 2.148 miliardi di dollari) e poco più piccola della Germania (il cui Pil è pari a 3.860 miliardi di dollari). La ricetta di Matteo Renzi che vuole combattere questa “guerra” con l’arma della cultura non è totalmente campata in aria e le ironie di Salvini non fanno certo onore al dibattito politico. Affermava anni fa Marc Augé: “Esiste un enorme divario non solo tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ma anche fra chi ha la possibilità di accedere ad un sapere e chi invece non ce l’ha. Questa è la posta in gioco di cui dobbiamo prendere coscienza, altrimenti continueranno a generarsi altre violenze”. Undici anni dopo solo l’ultima parte della sua profezia (la moltiplicazione delle violenze) ha trovato tragica realizzazione.
In una fase in cui sembriamo incerti, impauriti e sconvolti davanti a flussi migratori apparentemente ingovernabili e le ricette estremistiche dei Salvini, delle Le Pen, degli Orbàn incontrano favorevoli accoglienze nella pubblica opinione europea, forse sarebbe meglio riflettere su queste parole di Baudrillard: “La realtà crudele è che se gli immigrati sono virtualmente fuorigioco, noi siamo profondamente diseredati e in crisi di identità. L’immigrazione ed i suoi problemi non sono che il sintomo della dissociazione della nostra società alle prese con sé stessa. O ancora: la questione sociale dell’immigrazione non è che l’illustrazione più evidente, più grossolana dell’esilio degli europei dalla loro società”. E concludeva amaramente: “Una buona parte della popolazione si vede così, culturalmente e politicamente come immigrata nel suo stesso paese”. Possiamo combattere le guerre ma, contemporaneamente, dobbiamo sanare le fratture.