Guerra e nuove paure

-di Mauro Milano-

“Dopo Parigi e Bruxelles, Roma”, è stato detto. E, in giro per la Città Eterna, la paura c’è, anche se si va avanti: più forze dell’ordine e più controlli, immersi come siamo nel clima del Giubileo che alcuni avrebbero voluto rinviare ma che il Vaticano ha ritenuto appuntamento indispensabile, ancor di più in questo momento in cui la bestialità si trasforma in orrore, l’irrazionalità nei rintocchi delle campane a morto. Una mattina in metropolitana o sull’autobus già può dare, un po’, l’idea degli effetti del “terrore”. Meno gente, meno rumori e più attenzione, da parte di tutti. I passeggeri parlano poco, e si guardano intorno, nel vagone. Perché la possibilità di un attentato sotto terra (soprattutto ora, dopo Bruxelles) come sopra, c’è. Si dice che l’attacco alla Francia sia condannato dalla maggioranza dei musulmani, ma chi lo sembra, per via di una barba un po’ troppo lunga o un copricapo, qui non è visto di buon occhio.

Nella Ville Lumière in una sera sono morte 130 persone (non contiamo i terroristi essendosi per adesione filosofica, votati al martirio), in una quarantina di minuti, per mano dei jihadisti, lupi solitari, in branco però. Il massacro è presentato come un colpo agli infedeli (d’altro canto, questa storia del “sangue impuro che bagni i nostri campi” si ritrova anche nella Marsigliese) e come una vendetta per l’intervento francese nel pantano politico-militare siriano, o, andando ancora più in là, per il coinvolgimento nella guerra civile che ha trasformato il Mali in un dei posti più instabili e insicuri della terra. Motivazioni più o meno identiche per i due attentati che in quella che è viene definita la Capitale europea, in una terribile mattinata hanno provocato trentadue morti e trecento feriti di cui sessantuno gravi. Risacca di un anti-colonialismo impazzito, risentimenti antichi amplificati da una società che non è riuscita a integrare o che non ha ancora superato le ferite dello smantellamento del’Impero (l’Algeria). I fantasmi della Grandeur che tornano indietro come un terribile boomerang, abbattendosi sulle teste e sui cuori dei ragazzi che nella sala del Bataclan parlano felicemente mille diverse lingue ignari della tempesta di fuoco che li renderà immortali (nel nostro ricordo) ma toglierà loro la vita. E poi le impenetrabili dinamiche di quel Belgistan cresciuto non solo all’ombra delle colonie ma anche degli accordi economici per importare, ai tempi d’oro del boom, manodopera a basso prezzo. E lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (uno dei tanti nomi) non ha perso tempo a rivendicare le morti, e ad annunciare i prossimi obiettivi: insieme a Roma, le capitali di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto la ferocia non colpisce solo l’Europa, l’Occidente, ma anche il Libano, la Nigeria e il Mali, giusto per citare alcuni paesi al centro di un’offensiva lanciata unilateralmente all’interno di una guerra che nessun ambasciatore ha annunciato con una di quelle dichiarazioni che ora, essendo evidentemente in disuso, appaiono solo il reperto archeologico di una lontana era geologica, dei conflitti dei nostri padri ma non dei nostri figli. Il Presidente Hollande ha annunciato che la sua République è dentro la tempesta e il parlamento riunito ha cantato la Marsigliese, in piedi con la mano sul cuore: stato d’emergenza per tre mesi, frontiere chiuse, più forze dell’ordine, rappresaglia a Raqqa (la capitale dell’Is) attraverso un imponente bombardamento, e un blitz all’alba in periferia. Il Belgio ha reagito ritrovandosi e rincuorandosi a piazza della Borsa e facendo proprio lo slogan nato con la prima strage, quella di Charlie Hebdo: “Io sono Bruxelles”. Ma cos’è questa “guerra”? Il terrorismo integralista islamico? Un’operazione militare nel cuore della banlieue? I soldati sono andati Saint Denis, il quartiere degli attentatori di Charlie Hebdo, uno dei luoghi in cui dieci anni fa divampò l’incendio di una rivolta che fu anche generazionale e, chissà se ci fosse stata maggiore attenzione, forse adesso non saremmo qui a chiederci perché e per chi. Aree della città in cui per i bianchi è meglio non entrare, si è sempre detto. Dove il fondamentalismo diventa l’ideale catalizzatore dei ragazzi d’origine africana, magrebina, dei citoyennes insoddisfatti, assimilati ma non integrati nelle Liberté-Egalité-Fraternité e Laicité, blu bianche e rosse. Hanno lasciato la Francia, attraversato l’Europa, i Balcani, la Turchia, per arruolarsi con Daesh, e sono tornati per uccidere: è come se una malsana spiritualità si combinasse con un inappagato materialismo, la mistica del kalashinikov sullo sfondo delle luccicanti ma inarrivabili vetrine delle Galeries Lafayette, Boulevard Haussmann e Rue du Corbillon. E poi, in Belgio, il lungo assedio di Molenbeek, la cattura di Salah Abdeslam, la soddisfazione per il “nemico numero uno” reso ormai innocuo e il lutto per l’immediata “vendetta” dei fratelli El Bakraoui, veri e propri messaggeri di morte.

Che guerra è? Senza battaglie né fronti, né invasioni né resistenze… È lo “Scontro di civiltà” di cui parlava Samuel Huntington negli anni Novanta? Come questi conflitti inafferrabili e incomprensibili, hanno mutato le nostre paure? Chi è cresciuto nell’epoca in cui i Blocchi si confrontavano fatica a immaginare uno scontro armato in cui i tratti dei nemici, ancorché spesso celati nei burqa, assumono contorni sfumati e il soldato non ha una divisa “di un altro colore”, come cantava De Andrè nella sua guerra di Piero. E per salvarsi non basta sparare prima del nemico (“sparagli Pietro, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora finché non lo vedrai esangue cadere a terra e coprire il suo sangue”) perché il nemico può anche essere il tuo vicino di casa che all’improvviso, un bel mattino, al posto della cintura in pelle, si infila quella esplosiva. In quella vecchia guerra prevaleva quasi la logica dei film western: i buoni da un lato e i cattivi dall’altro, John Wayne e Toro Seduto, posizioni mutabili ovviamente a seconda dei punti di vista. Ora il problema è l’individuazione dei cattivi perché nell’era della semplicità si può cadere nel semplicismo propagandistico, imbracciato esattamente come un kalashnikov retorico da chi punta a farsi a suo modo imprenditore della paura per conquistare qualche consenso, allargare la platea, reclutare menti deboli perché inquiete. Nell’epoca dei blocchi avevamo paura di un solo, definitivo evento: la grande guerra nucleare, il dito che preme sul bottone rosso e azzera la terra come in una grande glaciazione; l’evento definitivo è scomparso sostituito da tanti momenti; la paura si è scomposta, è diventata un mosaico come le tessere che compongono la nostra quotidianità. Dalla paura in Blocchi alla paura come uno spezzatino. E’ come se la grandiosità del dramma fosse stata diluita nella banalità del tran tran giornaliero. Diventando, però, anche più atroce.

Ci sono pure offensive “vere e proprie” (quindi, conflitti tradizionali), diciamo, nella Siria che da più di quattro anni è in guerra civile, Una situazione caotica e terribile, in cui l’ISIS si è prima allargato dall’Iraq, poi sotto i bombardamenti “alleati” e russi, si è ristretto trasferendo contemporaneamente le sue “truppe” nella più caotina e anarchica Libia. Con quella bandiera ci appare come un nero ragno pieno di zampe o un Kraken pieno di tentacoli. Ma la maggior parte dei vecchi paesi è ora Daesh, la maggior parte del territorio è deserto, quindi sulle cartine non c’è. In realtà il mostro delle mappe sono le strade che i tagliagole controllano, dove trafficano armi e petrolio, anche droga semmai ingurgitando farmaci che cancellano la paura e trasformano il rumore di un detonatore in una sonata di Bach. La guerra c’è, ma non si capisce: guerra civile, aerea, asimmetrica, per procura, per la pace. E chi sta con chi?

La Russia con il governo di Assad, contro i ribelli, e contro l’Is; gli Stati Uniti, legati all’Arabia Saudita (sunniti) guidano una coalizione aerea anti-Is, e anche contro Assad? Contro il presidente

siriano volevano combattere già due anni fa, forse usando pure l’Is; la Siria di Assad (sciita) combatte i ribelli (sunniti), tra cui l’Is, con alcuni gruppi va verso la tregua; anche l’Iran (sciita) è

intervenuto, e l’accordo che ha firmato con gli Usa è ancora fresco. Ci sono i combattenti della prima ora, quelli che noi vediamo come i “buoni”: curdi e yazidi. A sud c’è la Giordania, ma anche

Israele, e la Palestina. Il Califfato nero sarebbe accerchiato, se non fosse per un piccolo corridoio, al confine con la Turchia. Da lì passerebbero i foreign fighters europei, è un paese della Nato e da

tempo secolarizzato, la Turchia, in cui l’integralismo sta crescendo, seppellendo sempre di più il sogno di Ataturk. Il Presidente Erdogan, forte del successo elettorale dopo le stragi in casa, ha dichiarato guerra all’Isis, ma combatte anche (anzi, soprattutto) i curdi. Buona parte del suo Paese, però, preferirebbe combattere solo i curdi perché anche lì l’Islam ha assunto connotazioni radicali: nello stadio, prima di una partita, dalle tribune sono piovuti fischi all’indirizzo del minuto di raccoglimento per le vittime della strage di Parigi. La cosa ha fatto notizia solo perché in campo c’erano le nazionali. Ma andò così anche l’11 settembre del 2001 quando sul terreno di gioco, da quelle parti, scese la Lazio contro il Galatasaray. Il calcio è normalmente la cartina di tornasole che svela gli umori malmostosi della società: bisognerebbe prestargli maggiore attenzione.

Il Medio Oriente è il teatro in cui va in scena la sanguinosa tragedia di questi, troppi, conflitti: tutti figli del grande antagonismo musulmano, Sunnismo e Sciismo, in cui si è infilato l’Occidente

da qualche lustro. Il Califfo, però, comanda anche oltre. L’Is non è solo Isis, c’è il Sinai in Egitto, qualcosa in Libia, Yemen (dove è in corso una guerra civile), Algeria, Pakistan, Bangladesh, per non dire in ogni persona che vuole aderirvi, e ha tanti movimenti affini nell’Africa nera, Boko Haram e altri gruppi stanno devastando Nigeria, Ciad, Camerun e Mali. Un nemico “a pezzetti”, come le alleanze – pensiamo alla Russia e alla Nato in Ucraina nemici e sull’altro fronte quasi alleati – come la “Terza Guerra Mondiale” secondo Papa Francesco.

Il mondo cambia e con esso la guerra. I conflitti si evolvono nel tempo, come tutto il resto, ogni epoca ha avuto i suoi morti in battaglie, diverse da quelle di prima e da quelle dopo. I ragazzi in

trincea cent’anni fa, o i loro generali e capi di governo che non sapevano di stare nel primo conflitto globale; difficile dire che questo sia il terzo in diretta informatica e televisiva (che abbia ragione Ligabue quando chiede ”a che ora è la fine del mondo, che rete è?”; dovrebbe solo aggiungere solo un interrogativo sul social di turno), anche se la nostra baumaniana società liquida è affamata anche di etichette. E liquida, diffusa, diciamo, è anche la stessa guerra, in Medio Oriente con bombardamenti e verso operazioni più massicce di terra, in Europa con il terrorismo. Quando l’antagonista può essere anche un qualsiasi concittadino e si può morire in situazioni quotidiane.

È una guerra cambiata molto anche rispetto a un quarto di secolo fa. Domenico De Masi, sociologo dice: “Durante la Guerra Fredda c’erano due blocchi, separati, ciascuno con il suo territorio, il suo esercito e la sua ideologia. Era una guerra guerreggiata, di una chiarezza perfino eccessiva. Questa è una guerra che deriva da una situazione post-industriale, in cui ogni soggetto ha almeno due o tre parti in commedia, penso alla Siria di Assad, all’Arabia Saudita, ma anche agli Stati Uniti. La stessa Francia è il carnefice di quei territori dagli anni Venti, ha generato un potenziale di odio che non si rimargina in un minuto. Il terrorismo vuole attaccare la nostra società, gli obiettivi sono laici, perché noi abbiamo modificato i punti di assembramento, prima c’era solo la Chiesa”. Prosegue il professor De Masi: “Gli islamisti hanno colpito e vogliono continuare a colpire luoghi del consumismo laico e dell’aggregazione sociale: i trasporti, gli stadi, le discoteche. Anche gli obiettivi dichiarati sono laici, c’è il Teatro alla Scala di Milano, c’è il Vaticano, inteso anche come luogo d’Affari, e non solo spirituale”. Religiosità malsana e consumismo insoddisfatto, appunto: un cocktail terribile.

Vengono scritte molte cose anche su come reagire e come intervenire, il nostro mondo sta cercando la risposta. Francesco D’Arrigo, direttore dell’Istituto di Studi Strategici Niccolò Machiavelli, prova a fornirne una: “I ricercatori del nostro Istituto stanno analizzando da tempo il fenomeno Is e altri fenomeni simili (è in uscita un paper sull’argomento, n.d.r.). Qui si sta commettendo un errore: lo Stato Islamico viene visto come un’organizzazione terroristica. Non è così, si tratta di un movimento insurrezionale”, dice il direttore e poi continua: “Sembra una differenza banale, invece è fondamentale. Abbiamo avuto diverse entità insurrezionali in passato, nella stessa Francia, per esempio, o in Cina, in Russia, negli Stati Uniti. Se classifichiamo tutto questo come terrorismo, alla fine resiste solo paura. La strategia che stiamo adottando noi occidentali, inoltre, è sbagliata, vanno colpiti in maniera più dura. È necessaria un’azione comune, di sicurezza europea, d’Intelligence e di Information sharing, e poi dobbiamo capire e prevenire i gruppi europei, i Foreign Fighters, di cui si servono, per gli attacchi. Dobbiamo colpire il Califfato, lo “Stato” Islamico. L’Is è uno “Stato”, abbiamo sottovalutato il nome, sembra che ce ne stiamo dimenticando. Ha un territorio, una legge e degli obiettivi, tra i quali quelli che colpisce con gli attentati dei lupi più o meno solitari oppure organizzati. E poi l’obiettivo è imporre la sharia in tutto il il mondo. L’organizzazione dell’Is è verticistica, non trasversale come quella di Al Qaeda. Tutto l’Occidente deve condividere una strategia militare e politica, non una visione di convenienza, basata sugli interessi di ognuno. Serve un’agenda diversa, un conflitto solo nei luoghi specifici, per debellare l’Is; e governi legittimi più o meno democraticamente eletti per evitare la situazione della Libia e dell’Egitto prima di Al Sisi. Altrimenti si cade in trappola, e – per ora – ci stiamo cadendo. Per quanto riguarda il quotidiano, dobbiamo stare sempre attenti, ma il controllo totale è impossibile, ne risentirebbe la vita di tutti. E anche l’economia” .

Il governo italiano invita alla prudenza, a non cedere alla paura, anche di fronte a una minaccia allo stesso tempo pervasiva e subliminale: continuare la vita di tutti i giorni è la migliore arma contro il terrorismo. Si cercherà di andare avanti con la vita di sempre. Anche se siamo in guerra, accettando le cose come sono, secondo il vecchio detto proprio francese: À la guerre, comme à la guerre.

fondazione nenni

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