-di ANTONIO MAGLIE-
Hillary Clinton, ormai proiettata verso la nomination, dopo il secondo super-martedì, ha galvanizzato i suoi elettori indicando quello che sarà il motivo centrale della battaglia per le presidenziali statunitensi: “L’America è stata resa grande dai valori che oggi Trump calpesta”. Lo scontro non è tra due persone ma tra due culture, tra la politica intesa come strumento per il miglioramento generale della società facendo convivere in maniera non conflittuale interessi diversi, e quella sorta di esercizio muscolare in cui tutto si trasforma in un duello all’ultimo sangue tra noi e gli altri vissuti come usurpatori. Trump, da questo punto di vista, interpreta una linea di pensiero (e di comportamento) che sembra riguardare tutto il vecchio mondo occidentale. Il tratto caratterizzante di questi tempi è la politica della rabbia da cui derivano, come conseguenza inevitabile, i governi rabbiosi.
La scheda elettorale non sintetizza più una scelta di campo ma si è trasformata in una vera e propria lettera di insulti.L’organizzazione da parte di Beppe Grillo del “Vaffa-day” sembrava, qualche anno fa, la solita trovata provinciale di un Paese che non riusciva proprio ad andare oltre i suoi atavici limiti culturali. Al contrario era l’annuncio di una generale linea di tendenza. Un vero e proprio contagio determinato dal peso della paura e dall’inconsistenza di leadership timorose e tentennanti, abituate a farsi guidare dagli umori rumorosamente travasati nei sondaggi (ora, poi, ci sono anche quelli rapidi via web) e non più in grado, al contrario, di condurci verso un obiettivo, verso un approdo sicuro, con coraggio e lungimiranza, cioè riuscendo a vedere oggi prospettive che noi riusciremo a scorgere soltanto domani.
La rabbia non ha bisogno di ideologie, né di valori, né di ideali. Vale in sé perché non c’è nulla di più liberatorio di un litigio a un incrocio stradale per una precedenza negata; perché l’insulto per essere lanciato contro un interlocutore non deve basarsi su analisi raffinate e valutazioni approfondite ma solo sull’umore momentaneo peggiorato, semmai, da contingenti motivi di irritazione personale. Certo i politici con i loro comportamenti quasi mai inappuntabili non aiutano. Ma molti li abbiamo votati semmai sull’onda di una precedente rabbia momentanea. Abbiamo voluto una politica senza radicamenti, senza riferimenti però poi ci lamentiamo se tra quelli che abbiamo scelto vi è chi salta, per interesse e tradendo le nostre attese, da un partito all’altro, manco fosse un canguro. E con la nostra rabbia produrremo, inevitabilmente, altri improvvisi (e improvvisati) fenomeni elettorali. Perché un’altra conseguenza della politica all’arrabbiata è proprio questa: il rapido sorgere di personaggi e movimenti. Un anno fa nessuno avrebbe preso sul serio Trump: era solo l’omologo televisivo di Briatore. Oggi compete per la più importante poltrona dell’Occidente democratico. Frauke Petry al di fuori dei confini tedeschi era quasi sconosciuta: qualche giorno fa ha conquistato il 24,2 per cento in Sassonia-Anhalt, il 15,1 nel Baden Wuerttenberg e “appena” il 12,6 in Renania-Palatinato.
Quello della destra populista e largamente xenofoba solo un paio di anni fa, sembrava un lieve vento occidentale, un ponentino; in pochissimo tempo si è trasformato in un impetuoso maestrale. In Danimarca il Partito del Popolo danese guidato da Kristian Thulesen ha conquistato alle ultime consultazioni nazionali il 21,1 per cento; in Austria il Fpo controlla quaranta seggi in Parlamento a cui si aggiungono gli undici del Team Stronach, altro partito populista fondato dall’ottantenne Frank Stronach, una sorta di Berlusconi in lingua tedesca che ha fatto i soldi in Canada; in Francia Marine Le Pen alle ultime europee ha conquistato il 25 per cento; meglio in Gran Bretagna è andata all’Ukip che ha raccolto il 26,8 dei consensi; in Belgio, invece, all’Alleanza neo-fiamminga è andata un po’ peggio: 16,4; non se la sono cavata male quelli del Partito delle Libertà in Olanda (13,3), i Veri Finlandesi (12,9), i Democratici Svedesi (9,7), i greci di Alba Dorata (9,4). Poi ci sono i governi rabbiosi di Victor Orbàn (Ungheria) e di Jaroslaw Kaczynski (Polonia). Ha ragione Hillary Clinton perché non solo l’America ma anche l’Europa è diventata quella che oggi è grazie ai valori che Trump calpesta impunemente e in ottima (si fa per dire) compagnia.