-di MAURO MILANO-
Il Brasile è spaccato. Un’inchiesta della magistratura colpisce i vertici del partito dei lavoratori (Pt) al governo e delle maggiori industrie del paese: tangenti, appalti truccati, finanziamenti illeciti per la campagna elettorale della presidente in carica, Dilma Roussef, e del suo predecessore, Ignacio Lula Da Silva, che è stato prelevato con la forza dalla polizia e interrogato per sei ore dai giudici. La procura di São Paulo ha poi chiesto l’arresto di Lula, di sua moglie e del figlio per riciclaggio di denaro. Domenica scorsa due milioni di persone erano in piazza nelle maggiori città brasiliane contro i due presidenti. Lula si difende dalle accuse e ha migliaia di suoi fans che stazionano davanti casa. Si dichiara innocente, e i suoi sostenitori parlano di complotto della destra che vuole andare al potere.
Dal 2003 al 2011, Lula ha governato il quinto paese più grande e più popoloso del mondo, protagonista in quegli anni di uno sviluppo economico impetuoso che lo ha portato a essere una potenza mondiale, con 20 milioni di persone passate dalla povertà alla classe media. Il presidente del popolo, ex operaio, ex sindacalista, era visto come un eroe, un padre della nazione. Ha avuto ammiratori in tutto il mondo del suo modello e delle sue idee. Dopo due mandati, la presidenza è andata alla sua “delfina” Dilma, la prima “Presidenta”. E per il 2018 il leader pensava di ricandidarsi, ma quest’inchiesta ora sconvolge tutto.
È un’altra tessera che cade in un effetto domino che sembra cancellare tutta l’alternativa di Sinistra che l’America Latina proponeva all’inizio del nuovo millennio. Idee contrarie all’economia neoliberista, e che si opponevano a quegli Stati Uniti che hanno sempre guardato a Sud come al “giardino di casa”. Quelli dell’”our son of a bitch”, dell’appoggio ai vari colpi di Stato in Cile, El Salvador, Guatemala. Una politica rivoluzionaria senza violenza, per l’uguaglianza sociale, una democrazia plebiscitaria, quasi diretta. I detrattori hanno accusato spesso i governanti latinos definendoli illiberali e demagogici. L’interprete più famoso, e criticato, di questa dottrina, il venezuelano Hugo Chávez la chiamava “Socialismo del XXI secolo”. In Sudamerica sono nati un mercato comune (il Mercosur o Mercosul) e addirittura un canale televisivo: Telesur. Il regista Oliver Stone aveva filmato in un documentario questa alleanza, andando a trovare ogni leader nel suo paese: oltre a Brasile e Venezuela c’erano Argentina, Bolivia, Paraguay e naturalmente Cuba.
Eravamo nel 2009, ora le cose sono cambiate. E stanno cambiando ancora. Le vene dell’America Latina, secondo la metafora dello scrittore Eduardo Galeano, morto neanche un anno fa, restano ancora aperte. Il continente di cui apprezziamo musica, letteratura, calciatori, resta segnato da profondo divario tra ricchezza e povertà, la violenza è ancora altissima. Il 17 dicembre del 2014 Barack Obama dichiarava: “Todos somos americanos”. Era il giorno della fine dell’embargo che aveva contrapposto USA e Cuba per più di mezzo secolo. Tra una settimana il Presidente degli Stati Uniti sarà all’Avana e incontrerà Raúl Castro. Nel 2018 ci saranno libere elezioni nell’isola, e potrebbe essere la fine del regime che nel 1962 ha portato il mondo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale. L’altro Castro, Fidel, ogni tanto viene dato per morto, e la notizia puntualmente smentita, sta chiuso in casa e ad agosto dovrebbe compiere novant’anni. Il paese dove morì nel ‘67 l’altro eroe cubano, Ernesto Guevara de la Serna detto el Che, la Bolivia degli altipiani, delle foglie di coca e dei giacimenti di litio, ha bocciato via referendum la possibilità per il presidente indio Evo Morales di ripresentarsi alle elezioni. Sarebbe stato il quarto mandato, il leader aveva avuto più del 60% dei voti solo due anni fa. Il paraguaiano Fernando Lugo, ex sacerdote, è stato destituito dal parlamento nel 2012. La Colombia è in grave crisi economica, e la lotta al narcotraffico, con l’aiuto statunitense, non ha avuto risultati brillanti. Pepe Mujica, che andava in giro con un maggiolino vecchissimo, viveva in una fattoria e aveva rinunciato al 90% del suo stipendio, non è più presidente dell’Uruguay. In Messico il leggendario subcomandante Marcos ha appeso il passamontagna al chiodo un annetto fa e Gisela Mota è stata uccisa poche ore dopo l’insediamento nella poltrona di sindaco. L’attivista verde Berta Caceres, onduregna, ha avuto la stessa sorte. L’Argentina dopo i Kirchner è andata a Mauricio Macri, figlio di un magnate d’origine italiana, ex presidente del Boca Juniors, ex sindaco di Buenos Aires. Macri ha provato a compattare l’opposizione contro i “peronisti”, ma ha vinto con un ristretto margine al secondo turno. Il suo partito Propuesta republicana (Pro), di destra moderata, non ha la maggioranza in parlamento, e per governare sta utilizzando decreti presidenziali. Il chavismo senza Chávez a Caracas non sta riuscendo: il nuovo presidente, Maduro, ha un parlamento nemico e un crollo economico da affrontare. La moneta è svalutata, il prezzo del carburante è in rialzo, e si dice che i paesi dell’Opec sperino il Venezuela vada in bancarotta, per riequilibrare il mercato dell’oro nero. E come se non bastasse arrivano le zanzare a portare il virus Zika, minacciosa piaga per tutti i paesi latinoamericani.
Il continente è in crisi, ancora povero, violento, non alza persino più al cielo la Coppa del Mondo di calcio (l’ultima volta fu a Yokohama, nel 2002). Ma ha anche un suo rappresentante al centro della religione, della politica e degli equilibri mondiali. Hugo Chávez è morto il 5 marzo del 2013. Dopo una settimana l’argentino Jorge Mario Bergoglio è stato eletto Papa col nome di Francesco e da tre anni provando a innovare la chiesa cattolica. Quest’estate, in ogni caso, inizieranno le Olimpiadi a Rio de Janeiro, e oltre che spirituale, l’America Latina, potrà tentare un riscatto sportivo, nonostante tutto.