-di ANTONIO MAGLIE-
Si pensava che la sinistra non avesse pari sul terreno dei litigi. In realtà, la destra sta mostrando di andare molto oltre, travalicando buon gusto e rispetto per le donne con l’astruso e offensivo dibattito sulla compatibilità tra lavoro politico e maternità (Berlusconi, con piglio ottocentesco, ha sostenuto che la Meloni non può fare il sindaco di Roma e contemporaneamente la mamma). Intanto bisogna dire che quel complesso di pulsioni che in Italia viene definita destra non ha nulla a che vedere con il significato che al termine viene dato (o veniva dato) in Inghilterra o in Francia dalla cultura liberale, cioè un partito conservatore con delle salde radici costituzionali e un certo rispetto per i principi fondamentali contenuti in un Carta che dovrebbe riguardare tutti.
La mutazione solo in parte genetica a cui oggi si assiste in Germania con l’affermazione di Frauke Petry e a Parigi con Marine Le Pen è stata per alcuni versi anticipata da quel che è avvenuto in Italia dal 1993 in poi in quel campo; quel che oggi avviene in Polonia e Ungheria è, a sua volta, l’evoluzione ulteriore e peggiorativa (più polarizzata) di quella trasformazione che oltre vent’anni fa ha cominciato a manifestarsi in Italia. Insomma, la destra è in mezzo al guado. Da un lato Silvio Berlusconi e la conferma di una idea di destra populistica ma soft, crocevia di interessi personali e di gruppi, moderatamente illiberale, sostanzialmente poco attenta alla Costituzione a cui quasi nessuno dei filoni culturali che davano vita all’aggregazione aveva partecipato nella sua originaria realizzazione (non poteva essere costituzionale un partito come la Lega Nord che teorizzava la secessione né una forza politica che era a tutti gli effetti l’erede del Movimento Sociale Italiano nato come la continuazione della vecchia Italia e di un sua articolazione istituzionale, seppur geograficamente parziale, prodotta dall’8 settembre del 1943 e dall’occupazione nazista); dall’altro, Matteo Salvini che, archiviato il messaggio secessionista della Lega di Bossi (continuando, comunque, a titillare le pulsioni xenofobe di buona parte del suo elettorato e aggregando a esse quelle diffuse sul resto della penisola), prova ad unificare l’area non tanto (o non più) sugli interessi (economici in particolare) quanto sulle fobie abbracciando in questa maniera il modello lepenista, lontano dalle nostalgie di papà Jean Marie ma non tanto da trasformare la lontananza in abiura totale con il rischio di essere associato al campo delle tradizionali forze della destra democratica: la mano sul cuore, le note dell’inno in gola e lo sguardo rivolto alla bandiera (quello dei leghisti non è nemmeno particolarmente intenso) ma il tutto caratterizzato da una profonda diffidenza per i principi dell’idea liberale dello Stato.
Il litigio riguarda la leadership e la partita fondamentale si gioca a Roma, cioè sul terreno su cui si può perdere e non su quelli in cui la destra può vincere. I sondaggi attribuiscono a Berlusconi e Salvini in percentuale più o meno gli stessi consensi. Ma sino a quando l’ex Cavaliere “tirava” il gruppo con la sua potenza mediatica ed economica, la sua leadership era indiscussa e indiscutibile; adesso, la sua presenza rischia di trasformarsi in una ipoteca negativa. Le due “anime” sono per molti versi incompatibili, lo erano anche ai tempi di Bossi; gli elettorati contigui ma non sempre sovrapponibili; il moderatismo formale di Berlusconi oggi mal si concilia con l’aggressività esibita e amplificata di Salvini; e se il primo saldava la “frattura” tra Sud e Nord che il “Senatur” provvedeva ad accentuare, adesso il suo successore pensa di non aver bisogno di un “saldatore” perché può provvedere all’impresa direttamente, semmai sfruttando il messaggio “nazional-centralistico” del partitino di Giorgia Meloni e Ignazio La Russa. Conclusione: questo è per il capo della Lega Nord il momento del cambio della guardia che può essere favorito più da una sconfitta che da una vittoria. Roma è il luogo ideale per la sfida finale all’Ok Corral.
Se Salvini cercasse realmente un candidato comune, lo avrebbe trovato da tempo. Ma in realtà lui punta più semplicemente a boicottare il candidato dell’ex Cavaliere che vuole declassare da alleato a ospite dell’alleanza (come già avvenuto alla manifestazione di Bologna), declassamento che Berlusconi, a sua volta, non può accettare; dice che “uniti si vince” ma alla corsa per il Campidoglio sembra voler arrivare in ordine sparso. Sarebbe, evidentemente, l’anticamera di una sconfitta che avrebbe, però, il sapore di una vittoria tripla. Potrebbe impedire alla lista di destra di andare a un ballottaggio che probabilmente perderebbe (tanto con il M5s, quanto con il Pd) e illustrerebbe con chiarezza la debolezza di Berlusconi e, quindi, l’avvenuto tramonto della sua stella. Contemporaneamente, potrebbe indirizzare al secondo, prevedibile turno una parte dei consensi verso la candidata del M5s, Virginia Raggi, ben sapendo che nella sua area il partito di Casaleggio e Grillo (anche per qualche affinità elettiva) raccoglie una certa simpatia. Con un colpo otterrebbe la fine del berlusconismo, l’ufficializzazione della sua leadership e persino un Primo Cittadino romano non sgradito e, soprattutto, in aperta contrapposizione al centro-sinistra e alla sinistra (o a quel che rimane dell’uno e dell’altra).
Analisi molto arguta e ben argomentata…Io una cosa sola mi sentirei di aggiungere: pur detestando Salvini e il populismo che rappresenta, se riuscisse ad eliminare definitivamente dalla scena politica Berlusconi bisognerebbe fargli un monumento.