-di ANTONIO MAGLIE-
Secondo quanto rivelato da “la Repubblica”, la prossima settimana il governo dovrebbe varare un provvedimento con il quale abbatterà al dieci per cento l’aliquota sugli incrementi salariali legati alla produttività (potranno essere anche investiti nella previdenza integrativa) e detasserà completamente i voucher che verranno distribuiti al posto dei quattrini e con i quali i lavoratori potranno pagare servizi di welfare (la baby sitter, ad esempio). I soldi in più in busta-paga sono sempre benvenuti anche perché potrebbero avere (in teoria, come ha dimostrato il bonus di ottanta euro) effetti positivi sui consumi e, quindi, sulla domanda interna che è debole da tempo immemore (già prima della crisi si muoveva con una certa lentezza). Nelle aziende in cui sono previsti i contratti integrativi (che non sono la maggioranza in Italia, anzi), si aprono spazi all’attività negoziale. Va anche detto, però, che essendo il sistema un gigantesco vaso comunicante, ciò che si ottiene da una parte si potrebbe perdere dall’altra ed è evidente che gli sconti fiscali e contributivi, in un paese ad alta evasione e ad altissimo debito pubblico, possono alla lunga comportare tagli ai servizi (sanità, scuola, pensioni, eccetera), soprattutto se poi in circolo resta un’aria neo-liberista che brandendo l’accusa di scarsa economicità, teorizza lo smantellamento del sistema sanitario nazionale e della previdenza sociale, preparandosi, al contempo, a banchettare con la succulenta e ampia torta della privatizzazione dei due settori.
Ma al di là dell’efficacia dello strumento, è la maniera in cui viene mediaticamente presentato che sollecita più di una perplessità. Si ha quasi l’impressione che in Italia la produttività sia ferma perché si lavora poco. Il che non è propriamente vero. E le analisi statistiche periodicamente elaborate, lo sottolineano da diversi anni con una certa puntualità. Nel 2012 l’Ocse rese pubblico uno studio che diceva che il record delle ore lavorative annuali spettava alla Grecia (2.017); l’Italia era settima (1.778) molto sopra la Germania. Eppure calcolando la produttività attraverso il rapporto tra le ore lavorate e il Pil, il nostro Paese finiva in fondo alla classifica (prima di Slovenia, Islanda e Grecia) venendo ampiamente sorpassato dalla Germania. Un paio di anni dopo un giornale tedesco, “Die Zeit”, rielaborando nuovi dati confermò la Grecia al primo posto (2.034 ore), l’Italia quarta (1.752) in linea con la media Ocse (1.769), Germania abbondantemente staccata (1.654). Quindi un altro studio sulle ore lavorate settimanalmente confermava la Grecia in testa con 42, l’Italia quinta (36,9), la Germania settima (35,3).
L’Istat tempo fa, a sua volta, ha provveduto a rendere pubblica una analisi sulle misure di produttività prendendo a riferimento il periodo tra il 1995 e il 2014. Veniva fuori che la produttività è aumentata dello 0,3 per cento annuo, risultato determinato dalla media della crescita del valore aggiunto (+0,5) e delle ore lavorate (+0,2). Ma spiccava un dato che spiega meglio di altri il ritardo che abbiamo accumulato: la produttività totale dei fattori che misura il modo in cui conoscenze ed efficienza dei processi produttivi incidono sulla crescita del valore aggiunto. Ebbene nel 2014, rispetto all’anno precedente, abbiamo avuto una flessione dello 0,2 e mediamente nel periodo dello 0,3. E’ evidente allora che il risultato della crescita della produttività è dato dalla somma di più fattori. Ma perché ci sia questa somma c’è bisogno di una politica economica (soprattutto industriale essendo l’Italia un paese manifatturiero) meno episodica e più complessiva che li metta in colonna inducendo, ad esempio, le imprese a reinvestire gli utili molto di più di quanto non abbiano fatto negli ultimi vent’anni (prima della crisi le più grandi si sono dedicate soprattutto a irrobustire gli uffici finanziari) e lo Stato a non smantellare (assecondando la svendita a pezzi) l’apparato industriale e a seguire la via indicata da Mariana Mazzucato cioè una forte spinta alla ricerca di base condizione essenziale per obbligare le aziende, a loro volta, a sostenere investimenti più cospicui in ricerca applicata, conoscenze (cioè aggiornamento continuo dei lavoratori) ed efficienza dei processi.