-di VALENTINA BOMBARDIERI-
Roberta D’Alessandro ha alle spalle una storia simile a quella di molti ragazzi italiani che, come dice nel suo post su facebook, “L’Italia non vuole”. Una fuga all’estero, un abbandono delle proprie radici e delle proprie tradizioni alla ricerca di un successo che ha ottenuto e meritato (in Olanda) e di cui il ministro Giannini ha provato, inopportunamente, ad appropriarsi, operazione che ha scatenato la giusta reazione dell’interessata. Grazie ai social è già diventata il simbolo di chi lotta in questa Italia nel nome della ricerca ma non ottiene mai i giusti riconoscimenti. Roberta ha ragione. C’è poco da esultare. Dall’Italia sono andati via settecentomila laureati e ricercatori in dieci anni e negli ultimi sette anni questa “fuga” ha prodotto un “danno” al Paese valutabile intorno ai 23 miliardi. Dopo la riforma Gelmini che ha massacrato letteralmente la ricerca, nelle università italiane si è dimezzato il numero dei ricercatori assunti a tempo determinato, da 1700 a 900; nel 2014 i dati sugli iscritti alle anagrafi dei nostri comuni dicono che ben 89 mila italiani hanno deciso di rinunciare alla residenza nel paese d’origine; in particolare chi va all’estero nella stragrande maggioranza (intorno al 70 per cento) non ha alcuna intenzione di tornare indietro.
Cervelli in fuga, per scelta o per aspirazioni personali, verso mete dove la ricerca è più valorizzata e i sogni più realizzabili. L’Inghilterra è la prima meta per l’area delle scienze chimiche, statistiche, politiche e per l’ingegneria civile e le scienze della terra. Gli Stati Uniti, invece, sono preferiti dai ricercatori in scienze mediche e biologiche, mentre il Belgio risulta primo per agraria e veterinaria. Milano è prima con 3.300 partenze, seguita da Roma (2.450), Napoli (1.885) e Torino (1.653). Ma anche dalla provincia (soprattutto da quelle Sud come ha spiegato recentemente anche la Banca d’Italia) partono in tanti.
C’è un’intera (probabilmente più d’una) “generazione perduta” che ha completamente smarrito la speranza. Un dramma sociale che le giovani generazioni devono affrontare tutti i giorni. È un grido di rabbia quello che si leva dalle aule universitarie e dai centri di ricerca. Una storia triste, fatta di ali tarpate, di sacrifici e di sogni infranti. Serviranno a poco o a niente Jobs Act, bonus cultura e sussidi vari, se non si ritornerà a dare spazio alle idee nuove. Quelle giovani, appunto. Non è tutto oro quel che luccica, si parla sempre di flessibilità del mondo del lavoro, di dinamismo e della “morte” del posto fisso. Tutto vero. Lo sanno bene i giovani anglosassoni, così come i loro coetanei tedeschi o francesi. Ciò che però si dimentica è l’attenzione con cui questi paesi si prendono cura dei loro cervelli migliori.
I giovani italiani sono privati di quelle opportunità che meritano e che, soprattutto, si sono guadagnati sul campo. Muore la fiducia, annichilita tra un lavoro a chiamata e stage non retribuiti. L’Italia ha bisogno di un nuovo contratto generazionale che riavvii l’avvicendamento lavorativo e l’ascensore sociale perché non basta quella mediazione, per quanto benefica sempre al ribasso, rappresentata da lavori senza prospettiva per i giovani e di supplenza degli anziani sul fronte del welfare familiare per turare le falle di guadagni miseri che non garantiscano nemmeno il soddisfacimento dei bisogni elementari. Bisognerebbe farlo prima che sia troppo tardi, riabilitando un’intera generazione che aspetta solo di dare il proprio contributo. L’Italia ha passato troppo tempo alla finestra, salutando con il sorriso amaro migliaia di giovani diretti verso un altrove pieno di interrogativi ma sempre più affascinante rispetto a una terra che al massimo garantisce spazi in un call center. È arrivato il momento di invertire la rotta.
Però è necessario che i giovani italiani non siano più considerati dei bamboccioni ma delle energie vitali, in grado di contribuire alla costruzione del futuro di un paese che li umilia ma che non smettono di amare anche quando vengono obbligati a trasferirsi all’estero. Generazioni che chiedono solo la possibilità di dimostrare il proprio valore. E non di fornire a un ministro della pubblica istruzione sostanzialmente inerte, l’occasione per vantarsi di successi di cui non può proprio menar vanto.