-di ANTONIO MAGLIE-
In Confindustria è ufficialmente cominciata la stagione elettorale che dovrà portare all’elezione del sostituto di Giorgio Squinzi. Le notizie che rimbalzano attraverso la stampa dicono che si cerca un presidente “a tempo pieno”, abile nel rapporto con il mondo dell’informazione, capace di reggere il confronto con un “comunicatore-annunciatore” svelto e moderno come il presidente del Consiglio, Matteo Renzi che ha invaso la scena anche con l’obiettivo di mettere all’angolo i corpi intermedi (organizzazione degli industriali compresa) declassandoli al ruolo di comparse (nemmeno di comprimari) a suo agio con l’universo dei new media e i social network, frontiera, quest’ultima, da cui nessuno può prescindere. A cui a volte, peraltro, ci si abbandona con eccessivo ottimismo sottolineato da Zygmunt Bauman in una chiacchierata con il settimanale “l’ Espresso”. Il sociologo, infatti, sottolinea come la facilità di accesso a quel mondo, l’impressione di essere a contatto con l’universo attraverso un semplice clic, che tutto davanti a noi si apra senza limiti spazio-temporali ampliando a dismisura i contatti interpersonali (le “amicizie seriali” di Facebook), ci forniscano una immagine ideale decisamente distante da quella reale. Internet, strumento essenziale, il confronto spesso lo chiude e non lo apre, con conseguenze non certo positive sul concetto di partecipazione sociale e politica (le forme antiche sembrano morte e quelle nuove non appaiono ancora nate).
Bauman spiega che gli studi sociali hanno dimostrato che “la maggior parte delle persone usa Internet non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro gli steccati”. Un problema serio perché, aggiunge, “siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo nasce in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. In questo interregno si muove la Confindustria in ottima compagnia visto che immersi nella stessa situazione sono pure i sindacati che hanno provato a “battere un colpo” con il nuovo modello di relazioni industriali ottenendo dalle loro controparti risposte deludenti e non tanto per il merito (si può anche non condividere o essere ferocemente contrari), quanto per la pervicace tendenza a chiudersi (esattamente come dice Bauman) piuttosto che ad aprirsi al confronto. Tre saggi (Adolfo Guzzini, Giorgio Marsiaj e Luca Moschini) sono stati investiti del compito di provvedere alla individuazione delle candidature che per essere accettate dovranno poter contare su un minimo iniziale del venti per cento di consensi.
In questi due anni, Renzi ha dominato la scena: imposto i suoi temi, le sue scelte, i suoi uomini, obbligato gli altri a rincorrerlo senza, però, indicare quale fosse il traguardo, fatta eccezione per un superficiale riferimento alla modernizzazione del Paese e alla velocizzazione delle decisioni (ma non è che la velocità sia sempre garanzia di qualità). Sono drammaticamente mancati, in questo quadro, gli altri attori, protagonisti a tutti gli effetti, cioè imprenditori e sindacati. Sono mancati perché Renzi li ha tenuti lontani, a volte blandendoli (le concessioni al mondo delle imprese), altre volte prendendoli a schiaffoni (la continua spinta alla delegittimazione del sindacato per giunta alimentata da un capo del governo a sua volta privo di legittimazione: aveva ragione Gramsci, negli interregni si verificano morbosi e anche un po’ curiosi fenomeni). La Confindustria ora è di fronte a una scelta non di ordinaria amministrazione. “Fare sistema” è sempre stata la parola d’ordine confindustriale. Ma l’impressione è che questo paese si possa salvare solo se il “sistema” diventa più ampio e riguardi gli interessi di tutti non solo di una parte, per quanto importante possa essere come quella rappresentata dagli imprenditori che oggi appaiono preoccupati soprattutto dalla necessità di “azzerare”, non di modernizzare, il contratto nazionale.
Siamo fermi perché lo 0,6 o 0,7 di Pil è poca roba. Ma siamo fermi anche per colpa degli imprenditori (non solo del governo o dei sindacati). I quali non hanno mai voluto fare un necessario salto di qualità: da classe imprenditoriale a vera e propria classe dirigente. E’ lo storico limite della borghesia italiana incapace farsi soggetto narrante di un intero Paese inteso come luogo della mediazione dei diversi e complessi interessi in campo. Negli anni migliori l’industria italiana per tenersi felicemente a galla ha manovrato due leve: svalutazione (quando c’era la lira) e compressione dei salari. La prima è stata disattivata dall’euro, la seconda ha assunto i caratteri di una progressiva svalorizzazione del lavoro, sia dal punto di vista dell’immagine sociale che da quello del corrispettivo economico ad esso garantito. Nel frattempo il sistema è invecchiato perché in innovazione e ricerca spendiamo l’1,31 per cento del Pil (21 miliardi) contro il 2 dell’area Ue; sulla cifra globale, il contributo delle imprese pesa per il 54 per cento (circa dodici miliardi). Fra le nazioni siamo al sedicesimo posto lontanissimi da Svezia, Finlandia e Danimarca che investono ben oltre il tre per cento; fra le imprese va un po’ meglio: quindicesimi. Compressione dei salari, precarizzazione del lavoro (malanno che il Jobs Act non ha curato, almeno totalmente) e mancanze di prospettive per i giovani che faticano a metter su famiglia e a fare figli (sul Pil incide anche la crescita demografica o, negativamente, la decrescita demografica) possono avere una sola conseguenza: la gelata della domanda interna e un Pil stagnante. Conclusione: forse è venuto il momento che gli imprenditori non si limitino a “fare sistema” tra di loro ma comincino a pensare a “fare (insieme agli altri) Stato”.