-di ANTONIO MAGLIE-
La domanda è sempre più attuale: si può fare a meno dei sindacati? Di solito se ne aggiunge una seconda: ma a che servono i sindacalisti? La risposta alla prima è complessa; quella alla seconda, invece, piuttosto lunga cosa che ha indotto il segretario nazionale della Cisl, Gigi Petteni, a farsi confezionare una maglietta con la scritta: “Faccio contratti”. Oppure c’è la risposta che il governo fornisce tanto alla prima quanto alla seconda cancellando la mediazione sociale o, come dice Pierluigi Bersani, “scavalcando la prima fila, parlando direttamente ai rappresentati, superando così i rappresentanti”. In pratica, la forma apparente di una sorta di democrazia diretta che occulta la sostanza di una democrazia del capo che si esalta nell’estetica dell’uomo solo al comando. Sarà forse per questa mutazione quasi genetica del sistema (cosa che preoccupa un vecchio leader politico della sinistra come Emanuele Macaluso quando parla “di novità pericolose”) che la proposta messa unitariamente a punto da Cgil, Cisl e Uil relativamente a un nuovo modello di relazioni industriali, ha esaltato poco la platea della politica (e anche quella mediatica, con le dovute eccezioni) finendo per lasciare agli atti solo le risposte decisamente tranchant delle organizzazioni imprenditoriali che sempre più spesso, in queste materie preferiscono sottolineare ciò che non si può fare (che è poi tutto quello che a loro non sta bene) piuttosto che dire ciò che si può fare e che, soprattutto, è utile agli interessi del Paese.
A volte poi capita che una associazione, nella fattispecie “Nuova economia, nuova società”, organizzi un dibattito mettendo intorno a un tavolo sindacalisti storici (Franco Marini e Giorgio Benvenuto), sindacalisti in servizio permanente effettivo (i segretari nazionali di Cgil, Fabrizio Solari, Cisl, Gigi Petteni e Uil, Tiziana Bocchi), politici (Pierluigi Bersani, Vincenzo Visco ed Emanuele Macaluso) e studiosi (l’economista Pierluigi Ciocca). Invitandoli a parlare (e spiegare) cosa è questo nuovo modello di relazioni prefigurato nella proposta illustrata il 14 gennaio scorso, da dove nasce e perché nasce. Se è (come dicono gli scettici) il prodotto del “taglia e cuci” di posizioni diverse o se, al contrario, a questo approdo il sindacato è giunto perché spronato dalla necessità di “ritornare a rappresentare il mondo del lavoro nella sua interezza” attraverso una “proposta inclusiva” (Bocchi), cioè capace di “riportare dentro chi non è protetto senza abbandonare chi è protetto” (Solari).
Ognuno può valutare come crede i contenuti dell’accordo. Questo blog lo ha già commentato attraverso due interventi di Enzo Russo. Ma se c’è una cosa che questo paese, bloccato, anchilosato, perennemente in mezzo a un guado che è più largo del Rio delle Amazzoni, non può fare è evitare di discuterne. Insomma, l’atteggiamento delle organizzazioni imprenditoriali che “invece di comprendere le novità hanno deciso di ridimensionare la valenza della proposta” (Visco) non serve a rimettere in moto un’Italia che a colpi di “zero virgola” si sta condannando a una lenta e infelice eutanasia. Bersani non ha dubbi: “Questo accordo è uno dei pochi raggi di sole in un mare di nubi”, dovrebbe “essere di assoluto interesse per chi ha nelle mani il governo del paese”, o, meglio ancora “per chi detta l’agenda” che al contrario, “purtroppo” finisce per esaurire tutto “nel circuito della demagogia”. Insomma, dovrebbe servire per dare una spinta al confronto senza nostalgie per la concertazione liturgica, “per le sale verdi o per le sale Verdini”, ma per capire quale futuro stiamo costruendo nella consapevolezza che esso ruota intorno a tre concetti: “crescita, buona occupazione e produttività”.
Si può anche non condividere quello che dice Bersani. Così come si può non essere d’accordo con l’impostazione di Marini per il quale attraverso la contrattazione aziendale si può risolvere il problema della competitività. O si può anche considerare infondata l’idea di Benvenuto per il quale l’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione, la partecipazione dei lavoratori alle sorti dell’impresa, può realizzarsi solo se i sindacati sviluppano ulteriormente e affinano la loro capacità formativa, la loro conoscenza (dal “resistere un minuto più del padrone” al leggere “un libro in più del padrone”). I dati che formano la nostra storia recente, però, parlano di un Paese in cui nessuno può cattolicamente dichiararsi “libero dal peccato”, oltre che da ogni turbamento. Soprattutto gli imprenditori che portano sulle proprie spalle un carico piuttosto oneroso di colpe, un carico che riescono in pubblico ad alleggerire esercitando pressioni (direttamente, in qualità di proprietari, o indirettamente, in qualità di sponsor e inserzionisti pubblicitari) sul mondo dei media. Il quadro lo ha fornito con estrema chiarezza l’economista Pierluigi Ciocca ponendo una semplice domanda: ma qual è la responsabilità dei lavoratori in questa crisi? Una domanda ricorrente visto che l’ultima volta venne posta negli anni Novanta, quando la lira entrò in fibrillazione; la risposta fu semplice: governiamo la dinamica salariale. Solo che dal governo (o controllo) siamo passati al sostanziale blocco: dall’entrata in vigore dell’euro a oggi i salari nominali sono cresciuti del due per cento mentre la produttività è diminuita. Negli anni duemila gli investimenti sono stati fortemente ridimensionati e tutto ciò ha determinato un valore negativo del tasso di progresso tecnico; in compenso, e volendo un po’ stranamente, i profitti lievitavano raggiungendo i massimi storici, configurando così un vero e proprio sciopero dell’efficienza e dell’innovazione (il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 40 per cento in Italia contro lo 0 per cento in Germania e il venti per cento in Francia, pur in presenza di salari sostanzialmente bloccati).
Difficile sostenere che tutto questo sia colpa dei lavoratori o dei sindacati. Ovviamente la combinazione di tutti questi fattori non poteva non avere effetti sulla domanda che si è contratta notevolmente: i consumi dei lavoratori sono diminuiti del due per cento fra il 2007 e il 2009 e del 7 per cento fra il 2011 e il 2013. Una vera iattura in un paese il cui settore manifatturiero lavora per il 70 per cento a vantaggio del mercato interno. Renzi invita a spendere di più. Ma è evidente che in queste condizioni è impossibile perché, come sottolinea Ciocca, “i lavoratori si sono sforzati di farlo” tanto è vero che la propensione al risparmio è diminuita mentre è aumentata quella al consumo. Ci sono molti e motivati motivi per tornare a discutere di relazioni industriali, di come restituire, tutti insieme, efficienza a un sistema produttivo in larga misura “zavorrato” dagli stessi imprenditori. Ma bisogna ammainare le bandiere identitarie (cosa che Cgil, Cisl e Uil hanno fatto e questo è un dato oggettivo) o abbandonando il circuito della demagogia e dell’annuncio ad usum tg di prima serata.