-di ANTONIO MAGLIE-
Breve antologia di un’amicizia incrinata. “Il governo tedesco è consapevole dell’ambizioso progetto di riforme di Matteo Renzi”. Parole e musica di Steffen Seibert, portavoce della Merkel, mandate in onda in eurovisione il 14 marzo del 2014. Tre mesi dopo, il 28 giugno, con atteggiamento allo stesso tempo ammirato e amichevole, Matteo Renzi si rivolgeva così a Frau Angela: “Ma lo sai che parlo più con te che con Hollande”. Il copione per tredici mesi si è dipanato lungo l’asse di un’intesa che non sembrava essere semplicemente politica, assumendo toni quasi sentimentali, roba da Goethe e da sturm und drang, raggiungendo il momento poeticamente più elevato nel pieno della crisi greca, il 1° luglio 2015 quando il presidente del consiglio italiano sillabava accanto alla raggiante Cancelliera (che evidentemente assentiva): “Non dobbiamo trasformare quel referendum in un derby tra Junker e Tsipras… Non è pensabile che noi abbiamo smesso di pagare le baby pensioni in Italia per pagarle in Grecia”. Ovazioni in sala per la perfetta interpretazione del ruolo dell’allievo volenteroso e diligente.
Poi la scena è cambiata e sono cambiate le parole. Invariati sono rimasti solo gli interpreti. Il 15 dicembre del 2015, lo stesso Renzi che parlava più con la Merkel che con il “compagno” Hollande, al vertice del Pse tuonava: “Ci sono un partito e un leader che controllano l’Europa in modo inaccettabile”. Replicava, appena tre giorni dopo, al consiglio europeo: “Cara Angela, non potete raccontarci che state donando il sangue per l’Europa”. Ma non finiva lì. Perché il “derby” con Junker negato a Tsipras, Renzi lo concedeva a sé stesso. E al presidente della Commissione che a brutto muso gli chiedeva di non “vilipendere” più l’istituzione da lui guidata (comportamento definito, per giunta, poco comprensibile), il presidente del consiglio italiano replicava in modo netto il 15 gennaio 2016: “Non ci facciamo intimidire da dichiarazioni a effetto. L’Italia merita rispetto”. E, ancora insoddisfatto, alla Reggia di Caserta aggiungeva: “L’Europa non può essere soltanto un pacchetto di regole”.
Un tempo si sarebbe parlato di un premier di “lotta e di governo”. Oggi, probabilmente, la più giusta definizione di certi comportamenti è sintetizzata nel titolo dell’interessante libro di Marco Revelli: “Dentro e contro”, cioè dentro le istituzioni ma, allo stesso tempo, contro, espressione dell’élite politica che governa il Paese ma allo stesso tempo in aperta (ma non si capisce bene in che misura convinta e sincera) contestazione di quella stessa élite. La politica, d’altro canto, non è il regno né dell’etica né della linearità, principio che vale in generale ma ancor di più per il nostro paese dove, come diceva Flaiano, la via più breve tra due punti è l’arabesco. Anche per questo negli ultimi giorni molti illustri osservatori si sono posti un interrogativo estremamente semplice: perché lo fa? Ovviamente l’idea che alla base di questo improvviso cambiamento di registro vi sia la necessità di pescare qualche consenso nello sterminato acquario degli euroscettici (la stragrande maggioranza degli italiani, ormai) appare fondatissima, con le amministrative che si avvicinano e i buoni risultati che appaiono sempre più lontani dal 40,1 conquistato dal Pd nella consultazione europea del 2014. Tattica, insomma, in un Paese che ormai considera la politica un esercizio totalmente privo di prospettiva, che si esprime e si brucia in messaggi rapidi che nessuno tra una settimana o un mese ricorderà più e, perciò, potranno essere sostituiti da altri di segno totalmente diverso tanto non si corre il rischio di essere considerati incoerenti.
Ma una politica fatta solo di tattica alle nostre vite non racconta nulla, al massimo occupa un po’ di spazio nella nostra vicenda quotidiana; ci urla qualche slogan mutuato dalla pubblicità ma non ci dice cosa saremo e come potremo cambiare. Al limite con l’attuale Matteo Renzi si potrebbe anche essere d’accordo perché è vero, l’Europa non può essere una accozzaglia di regole imposte, per giunta, da una burocrazia priva di qualsiasi legittimazione democratica e popolare; ispirate da una religione senza alcun soffio di idealità ma solo dalla cinica concretezza di un liberismo che nell’ultimo decennio ci ha regalato “bolle” speculative e una diseguaglianza sempre più marcata. Ma l’Europa era così anche nello scorso mese di luglio quando accanto alla Merkel il premier recitava la parte dell’alunno-modello col grembiulino pulito e il fiocco ben sistemato, dandole così una mano a mettere dietro la lavagna Tsipras e Varoufakis. Forse allora avrebbe dovuto rendersi conto dell’abissale lontananza di questa Europa da quella di chi l’ha immaginata alla fine della guerra; forse allora avrebbe dovuto provare a valorizzare quegli stati d’animo che hanno prodotto fenomeni come Syriza e Podemos trasformandoli in una proposta seria e credibile e non in mediatiche invettive, forse allora avrebbe dovuto prendere atto che l’Europa non va abbattuta ma profondamente, inesorabilmente riformata. Solo che a quel tempo Renzi sembrava fare a gara con Rajoy per occupare il posto dell’invitato mediterraneo privilegiato (e più affidabile) alla tavola della Merkel. Era quello il tempo. Forse ora è troppo tardi anche per racimolare utili elettorali.