Terrorismo e libero arbitrio

crisafulli-EDOARDO CRISAFULLI- 

Il mito dell’irresponsabilità è, ahimè, largamente diffuso nella nostra cultura, forse più che in quella islamica. A noi occidentali piace immaginare che i vari Mengele, Himmler e John Jihadi siano vittime di chissà quali abusi infantili, o di terrificanti condizioni materiali, molle incontenibili che li avrebbero spinti a compiere azioni malvage – loro malgrado. L’uomo nasce buono; sono le circostanze – l’educazione, l’ambiente – che lo rendono cattivo. Quando il male è così brutale da essere inconcepibile, cioè irriducibile a un nostro schema razionale, ecco che ricorriamo alla categoria medico-psichiatrica della follia. Ci tranquillizza pensare che questi mostri di crudeltà siano fuori di testa. Del resto, la giurisprudenza contempla attenuanti legate alle circostanze in cui avviene il reato; chi commette i crimini più abominevoli, pensiamo, dev’essere totalmente irresponsabile perché incapace di intendere e volere. Ma erano tutti folli in questa accezione giuridica i papaveri nazisti e i volontari delle SS? Sono tutti dementi, oggi, i jihadisti dell’ISIS e di Al Qaida?

Tanti bambini – al pari di Hitler – hanno sofferto a causa di percosse e violenze in famiglia, eppure da adulti non pianificano e non mettono in opera stragi di innocenti. Lo stesso vale per chi lamenta altri generi di soprusi e di ingiustizie. Politicamente ha senso parlare di condizioni materiali che favoriscono l’attecchire di ideologie estremistiche. Sappiamo che le clausole umilianti del Trattato di Versailles, imposto alla Germania nel 1919, unite alla disoccupazione e all’inflazione che ne derivarono, spinsero milioni di tedeschi ad acclamare Hitler come un Messia. Anche la guerra in Iraq e certi modi brutali di combattere l’insorgenza terroristica hanno esacerbato gli animi di molti musulmani, predisponendoli alla lotta armata. Detto ciò, da un punto di vista morale ogni individuo rimane libero di agire, ovunque si trovi – e certamente ognuno di noi è autonomo nelle sue scelte allorché sono in gioco la vita e la dignità umana. C’è oltretutto un salto logico incomprensibile fra l’aver subito un trattato di pace punitivo dopo una disfatta militare e la decisione di annientare nelle camere a gas un popolo intero; né si capisce come le vessazioni patite dagli islamici possano indurre qualcuno a tagliar la gola a donne e bambini, a bruciar vivi i membri di una comunità etnica o religiosa diversa dalla propria, a distruggere reperti archeologici di civiltà antichissime. C’è una violenza così spropositata e gratuita, così ferocemente disumana in queste presunte reazioni o ritorsioni, che mi riesce impossibile classificarle per tali.

Il Centro Internazionale per lo studio del radicalismo presso il King’s College di Londra sfata il mito dell’irresponsabilità: il fatto che John Jihadi provenga da una famiglia agiata “dimostra quello che noi sosteniamo da tempo, ovvero che la radicalizzazione non è alimentata dalla povertà o dalla deprivazione. L’ideologia gioca un ruolo importante nel motivare i jihadisti”. Siamo ossessianati dalle cause, remote e profonde, dei fenomeni politici che ci incutono paura. Così facciamo passare in secondo piano la negatività assoluta di una ideologia di morte che procede di moto proprio, che ha la stessa diabolica attrattiva che il nazismo ebbe sulla gioventù tedesca negli anni trenta; una ideologia del terrore che invita a schiavizzare, stuprare e sgozzare gli infedeli, gli eretici e i dissenzienti (per non dire degli omosessuali, delle adulture ecc.); una ideologia primitiva che invoca la legge del taglione senza un quadro giuridico, senza processo e senza prove.

Il cuore del problema è che abbiamo dimenticato – lo dico da laico e da agnostico – la straordinaria lezione morale del cristianesimo, una delle radici della cultura occidentale, che ritroviamo secolarizzata in Kant, il più geniale filosofo dell’illuminismo: nasciamo liberi proprio in quanto siamo esseri razionali dotati di una coscienza, di una facoltà morale. Dante ha espresso con incomparabile vigore poetico questa concezione etica. “Lo mondo è ben così tutto diserto/d’ogni virtute… e di malizia gravido e coverto.” (Purgatorio XVI). La ragione di tanta malvagità, si chiede Dante, è da ricercarsi in cielo (nell’influsso degli astri, nel destino) o nella natura umana? La risposta, nella sua chiarezza e semplicità, è più efficace di un trattato filosofico: “se tutto movesse seco di necessitate… in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia.” Se non fossimo liberi di scegliere fra il bene e il male, nessuna giustizia – né umana, né divina – avrebbe ragion d’essere. Privati del libero arbitrio, perderemmo la nostra umanità: ci trasformeremmo in animali che seguono ciecamente il loro istinto. Il male esiste a causa di scelte umane. “A miglior forza e a miglior natura liberi soggiacete … però (= perciò), se ‘l mondo presente disvia, in voi è la cagione.”

Non siamo costretti a credere nella trascendenza per concordare con Dante. Per secoli abbiamo scandagliato l’animo umano e dissezionato gli ambienti in cui nasciamo e cresciamo. Così – dopo Marx e Freud – siamo giunti alla conclusione che, in fondo, non siamo poi così liberi: spesso ci ritroviamo schiavi di circostanze materiali (la povertà, lo sfruttamento capitalistico) oppure rispondiamo a impulsi psichici inconsci che ci costringono imboccare la strada sbagliata. Anzi, abbiamo fatto di più: abbiamo espunto il concetto stesso di male dalla storia umana. Benedetto Croce – che pure parlò della “barbarica violenza dell’orda”, a proposito di bolscevichi e nazisti — ci ammoniva che una storia laica è incompatibile con categorie metafisiche. Mi chiedo se non dovremmo riflettere e, forse, rivedere questa posizione. In verità, a volte abbiamo frainteso i nostri Maestri. È per questo che la cultura della sinistra è avvelenata da un sociologismo volgare, che ha poco a che spartire con Marx, il quale, tra le varie cose non condivisibili, ne disse una giustissima: “le circostanze fanno l’uomo non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.”

Certo non possiamo più vedere la persona esattamente come la vedeva Dante; secoli di modernità ci hanno fatto progredire nella conoscenza della natura umana. Anche la Chiesa oggi ha una visione più moderna, che non ignora più le condizioni materiali in cui siamo costretti a vivere. Papa Woytila (Sollicitudo rei socialis) escogitò il concetto teologico di “strutture di peccato”, che io interpreto come realtà materiali (capitalismo consumistico e speculativo, non mitigato da politiche sociali; dittature che privano l’uomo della dignità) e come ideologie devianti incarnate in un sistema o assurte a paradigma culturale, le quali di per sé generano il male, nel senso che incoraggiano gli individui che ci vivono dentro o che ne sono prigionieri a “peccare”. Woytila, badate bene, non dice che abbiamo smarrito il lume della coscienza; siamo tuttora in grado di scegliere fra ciò che è morale e ciò che è immorale. Tornando su un terreno laico, che mi è più congeniale: sappiamo che i tassi di criminalità sono ben più elevati nei ghetti e nelle favelas che nei quartieri residenziali, di lusso. Ma un conto è rubare e truffare, tutt’altro conto è combattere in un’organizzazione terroristica votata a seminare morte e distruzione, e che mira all’annientamento totale dei propri nemici.

Credo che il nucleo essenziale della teologia dantesca sia ancor valido. Nasciamo in famiglie, in nazioni, in culture diverse, ma manteniamo tutti un pulviscolo di libertà, che esercitiamo nelle cose piccole e nelle grandi. Per quanto determinate circostanze possano abbruttirci o spingerci sull’orlo di un precipizio, rimaniamo pur sempre ontologicamente esseri umani: siamo dotati di una ragione e di una coscienza. Posti di fronte a scelte morali e politiche drammatiche, non siamo necessitati come automi. Se diventiamo bestie o “pecore matte” è noi stessi che dobbiamo incolpare. Imprimiamoci in mente il nostro Dante: “Lume v’è dato a bene e malizia.”

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