Apprendiamo, sgomenti, che una cinquantina di jihadisti residenti in Italia (di cui un paio con tanto di passaporto italiano) si sono arruolati nelle bande terroristiche dell’ISIS – unendosi alle migliaia di musulmani europei che militano sotto le bandiere nere e truci di un sedicente califfato, che è in realtà un regno del terrore. Ed ecco che a Cinisello Balsamo un imam salafita, cioè un predicatore integralista, salta su e dice che questi guerriglieri-terroristi sarebbero da “onorare”: sono freedom fighters o partigiani che lottano contro dittature sanguinarie (lo pseudo-califfato, quello invece è uno Stato costituzionale di diritto, un’oasi di pace e di giustizia!!). L’imam, contraddicendosi, vomita il suo disprezzo per il sistema democratico, che non garantirebbe né la giustizia né l’eguaglianza – ideali sacrosanti perseguiti, a quanto pare, dai restaturatori di un mitico Stato teocratico assoluto, puro, incontaminato. I jihadisti dell’ISIS e di Al Qaida desiderano cancellare ogni residuo contaminante, infetto, della cultura occidentale. Il paradosso è che scimmiottano le pose nichilistiche dei rivoluzionari che un tempo spadroneggiavano a casa nostra: i giacobini, i bolscevichi e i nazisti. Ecco che rispunta, in forme religiose, il concetto di tabula rasa: solo un bagno di sangue può rigenerare un’umanità corrotta e degradata dal peccato, dalla proprietà privata, dalla borghesia, dalle demo-plutocrazie, dal complotto giudaico-massonico. Noi europei abbiamo già udito – e subito – queste follie, in nome delle quali sono morte milioni di persone. Grazie al cielo l’Occidente ha sviluppato potenti anti-corpi contro il virus messianico-rivoluzionario.
I gruppi consiliari del PD e di SEL a Cinisello Balsamo hanno reagito alle farneticazioni dell’imam condannando “con fermezza ogni dichiarazione antidemocratica ed inneggiante all’uso della forza e della violenza.” Tutte le forze politiche democratiche devono mostrarsi compatte nel condannare chi fa proselitismo per l’ISIS e Al Qaida. Ai governi democratici spetta il compito di vigilare, perseguendo per via legale i reclutatori e i fiancheggiatori di tali organizzazioni criminali. Gli ideologi e i predicatori della jihad globale vanno cacciati dall’Europa; che vadano altrove a piantare il seme dell’odio e della violenza arbitraria. Il nostro Ministro degli Interni Angelino Alfano si è mosso molto bene e tempestivamente: ha già espulso una decina di jihadisti dall’Italia. Non c’è bisogno di alcun dibattito sulla libertà di parola, che non è in discussione. Abbiamo già ottime leggi sull’apologia di reato (e di delitto), nonché sull’istigazione a delinquere. Ci vuole solo mano ferma nell’applicarle.
L’Imam di Cinisello Balsamo è consapevole che i terroristi dell’ISIS sono tagliagole e assassini di prim’ordine. Eppure non li reputa responsabili delle atrocità che commettono fatalmente in Siria e Iraq; la responsabilità lui la scarica per intero sulle istituzioni europee le quali spingerebbero i giovani idealisti in braccio ai carnefici dell’ISIS e di Al Qaida. Cosa induce i musulmani a combattere sapendo che moriranno se non l’umiliazione cui sarebbero sottoposti ovunque?
In Gran Bretagna circolano le stesse teorie bislacche. S’è appena scatenata una discussione accesa sul percorso di John Jihadi, nome di battaglia del boia spietato dell’ISIS, che è – sembrerebbe – un musulmano di “buona famiglia” cresciuto a Londra. Pare che John Jihadi si fosse rivolto a una organizzazione britannica indipendente, CAGE, che “opera per restituire fiducia e senso dell’appartenza (“to empower”) alle comunità colpite dalla guerra contro il terrorismo. Nelle sue campagne di controinformazione, CAGE denuncia gli abusi e i maltrattamenti che fanno a pugni con lo Stato di diritto, derubricati spesso a danni collaterali di quella che Bush definì The War on Terror. Un rappresentante di CAGE dice candidamente che John Jihadi, nella sua vita precedente, era “una persona stupenda, estremamente mite, umile e gentile”. Non ne dubito: anche il peggior criminale può mostrare un volto umano. Chissà quanti, incontrando il Dr Josef Mengele – qualche anno prima che esercitasse le sue competenze mediche seviziando i bambini ebrei ad Auschwitz – e Adolf Eichmann – prima che s’ingegnasse nel progettare trasporti celeri affinché il più elevato numero di ebrei potesse essere spedito nel più breve tempo possibile nei campi di sterminio –, notavano un’umanità e una gentilezza che la loro successiva conversione al verbo nazista avrebbe cancellato. Più probabilmente, l’affabilità e le buone maniere – da un certo momento in poi – Mengele e Eichmann le riservarono solo ai nazisti ‘di pura razza ariana’, sicché bisognava appartenere a una delle categorie degli Untermensch o essere oppositori politici per cogliere l’efferata crudeltà di questi signori della morte.
Il rappresentante di CAGE va ben oltre queste ovvietà. John Jihadi, a suo dire, ha assunto posizioni radicali, estremistiche, per reazione al trattamento persecutorio inflittogli dai servizi segreti britannici, che lo tenevano sott’occhio e lo vessavano di continuo. Senza quelle “persecuzioni c’è da scommettere” (sic) che Jihadi John, un giovane d’indole pacifica, non sarebbe diventato l’uomo-immagine del terrorismo islamista più feroce e sanguinario. La colpa, insomma, è sempre di noi occidentali. Siamo noi che trattiamo gli immigrati islamici come “outsider”, come stranieri. Siamo noi che li rendiamo dei disadattati, degli alienati; quindi non meravigliamoci se queste vittime di un sistema vessatorio sono disposte a vendere l’anima al diavolo, cioè all’utopia del califfato. Allibisco di fronte a queste argomentazioni: la Gran Bretagna è la patria del liberalismo nonché la prima democrazia dell’epoca moderna, la cui fermezza nel 1940 ci salvò dalla barbarie nazi-fascista; è anche una nazione iper tollerante verso la diversità e apertissima al multiculturalismo – Londra è una delle metropoli più cosmopolite al mondo. Se c’è un modello di convivenza che la destra xenofoba odia è proprio quello britannico. Nessuna democrazia è perfetta, ci mancherebbe. La lotta al terrorismo ha prodotto anche quell’infamia che è stato il carcere di Abu Ghraib in Iraq. Io però rovescio l’impostazione vittimistica di CAGE: interroghiamoci anzitutto su ciò che fanno i jihadisti, a prescindere dai motivi per cui lo fanno. Se vogliamo far autocritica, muoviamoci in senso opposto a quello suggerito dai nemici dell’Occidente: anziché flagellarci per le nostre colpe passate (il colonialismo, lo sfruttamento dei paesi poveri – e chi più ne ha, più ne metta), dovremmo riabilitare il concetto di responsabilità individuale. Non si può, e non si deve uccidere alla cieca neppure quando si combatte per una causa giusta, per autodifesa. Il mezzo ignobile fagocita e insozza anche il fine più nobile. Figuriamoci quando il fine è tutt’uno col mezzo, come nel caso del terrorismo. I terroristi, a propria discolpa, hanno sempre invocato il diritto di reazione a un (presunto o reale) torto, a un’offesa, a un’ingiustizia subita. Ma nulla – ripeto: nulla – può giustificare il ricorso al terrorismo, che falcia sempre vite innocenti. Questo vale per tutti: per le Brigate rosse, per i neo-fascisti che piazzarono le bombe alla stazione di Bologna. Non si capisce perché non debba valere per i jihadisti dell’ISIS e di Al Qaida.