Purtroppo in Italia lo Statuto dei lavoratori non ha un rilevanza costituzionale. Non che la cosa non fosse passata per la testa ai nostri padri costituenti. Anzi, il 3 maggio del 1947 l’onorevole Maria Angela Guidi Cingolani (DC) chiedeva che nella Costituzione vi fossero inclusi i principi (già in parte espressi) formulati a Filadelfia nel maggio del 1944 in occasione della XXVI sessione della Conferenza internazionale del lavoro. In cima alla lista dei principi approvati a Filadelfia campeggia il seguente: “il lavoro non è una merce”.
C’è di più: gli onorevoli Cairo (PSI) e Tremelloni (PSI) avevano presentato il seguente emendamento: “La repubblica riconosce i principi affermati dalla Dichiarazione di Filadelfia, dell’Organizzazione internazionale del lavoro”. Tuttavia, quando l’8 maggio l’emendamento viene all’esame dell’Assemblea Costituente, i due onorevoli non sono presenti in aula e l’emendamento si intende decaduto1.
Ovviamente nella nostra Costituzione vi è molto di quei principi. Con l’art. 35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. Nell’art. 36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) si sancisce, sebbene in nuce, il principio che il lavoro non è una merce: a determinare il salario, infatti, devono concorrere elementi extra economici, vale a dire la necessità di assicurare a qualunque lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Ed infine l’art. 41 con il quale si subordinano le ferree leggi dell’economia e dell’impresa “alla utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”.
Viene da chiedersi se il precariato, la paura del licenziamento, oltre il quale vi è il nulla, l’ansia costante del domani, la paura della povertà (secondo l’ultimo rapporto Censis il 60% degli italiani ritiene che possa capitare a chiunque di finire in povertà) non siano forse cose lesive della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Ed il fatto che questi stati d’animo e la paura del futuro frenano i consumi, facendo collassare l’economia, non è forse qualcosa contrario alla utilità sociale?
Con il Jobs Act, ha dichiarato il presidente del Consiglio Renzi, non si ridurranno i diritti dei lavoratori, ma si elimineranno gli alibi che gli imprenditori forniscono per non investire e non assumere. E sia. Ammettiamo pure che sia così, che i diritti non saranno ridotti, la speranza è pur sempre l’ultima a morire.
Tuttavia, una domanda sorge spontanea: e se, dopo l’eliminazione dell’Irap, dopo l’abolizione dell’art. 18, gli imprenditori continueranno a non investire e a non assumere, che si farà? Credo che neanche supplicarli in ginocchio potrà convincerli né potrà servire dichiarare il proprio eterno amore nei confronti della libera impresa come ha fatto il premier Valls in Francia. Perchè?
Perchè l’errore che si fa è quello di considerare l’impresa e l’imprenditore la variabile indipendente dello sviluppo economico, il motore immobile della crescita, di qui le politiche dell’offerta (supply-side economics), nella quali la politica si impone un ruolo ancillare rispetto all’imprenditore, nella convinzione (errata) che l’interesse dell’imprenditore coincida con l’interesse generale.
Il meccanismo è lo stesso che abbiamo visto per la Flat Tax, se lascio quanti più soldi possibile nelle tasche dell’imprenditore e dei ricchi, se gli libero la strada dai lacci e lacciuoli imposti da una politica miope nel passato, questi, dando libero sfogo ai propri spiriti animali, faranno nuovi investimenti, che si tradurranno in nuovi posti di lavoro e quella ricchezza che, con gli sgravi fiscali e con la Flat Tax si è lasciata nelle tasche dell’imprenditore, magicamente sgocciolerà verso il basso ed andrà a finire, sotto forma di salario, nelle tasche dei lavoratori. Così quella disuguaglianza che era stata prodotta con una tassazione proporzionale e la riduzione delle norme a tutela del lavoro, svanirà naturalmente.
Questo processo tuttavia, come è stato dimostrato dalla stessa crisi economica, non ha funzionato. La ricchezza non è sgocciolata verso il basso, ma si è ammassata copiosa in alto: i soldi lasciati nelle tasche dei ricchi si sono trasformati in sfarzo (senza però sostenere la domanda globale, solo il mercato del lusso non è in crisi), si è preferito mettere il fieno nelle cascine svizzere o nei paradisi fiscali: “sono i ricchi a scegliere dove farsi tassare”2; si è preferito investire in operazioni speculative di tipo finanziario; e chi ha fatto investimenti di tipo industriale di solito lo ha fatto in paesi come la Cina dove basso è il costo della manodopera. Dunque, la teoria dello sgocciolamento si è rivelata un’illusione, «una credenza, un articolo di fede»3.
Se l’impresa è una variabile dipendente qual’è allora quella indipendente? Le aspettative sul futuro, l’immagine che si ha di quello che succederà domani. L’aspettativa dell’imprenditore è quella di poter vendere il proprio prodotto o i propri servizi. E quand’è che le aspettative dell’imprenditore passano da negative a positive? Quando può constatare che i consumi crescono, quando aumenta la domanda aggregata. Solo allora si convince che il bel tempo sta per arrivare ed è bene non farsi cogliere impreparati, di qui gli investimenti e le assunzioni. Se l’imprenditore continua a vedere nero nel futuro non c’è verso di convincerlo ad investire e ad assumere4.
Ma che cos’è che fa aumentare i consumi e la domanda aggregata? Anche in questo caso le aspettative sul futuro. E cos’è che condizione le aspettative dei consumatori e li fa spendere di più? La ragionevole aspettativa di poter condurre anche domani un’esistenza libera e dignitosa, di poter continuare ad avere un salario e quindi un posto di lavoro e questa ragionevole aspettativa è fornita da fattori non economici ma giuridici (le norme a tutela del lavoro e del salario), politici (una politica di pieno impiego e di attenzione al mondo del lavoro) e sociali (i sindacati).
Di conseguenza, quando, grazie a questi fattori, la maggioranza dei cittadini, quanto più ampia possibile, guarda con fiducia al domani, la domanda aggregata cresce, crescono i consumi, l’imprenditore fiuta il mutar del vento ed investe ed assume ed il ciclo economico riparte.
Nessuna impresa, per quanto grande essa sia, può dare avvio a politiche anti-cicliche tali da invertire il corso discendente dei consumi e delle aspettative collettive. Può farlo la politica, con investimenti pubblici, i sindacati, tutelando gli interessi e i salari dei lavoratori, ma non l’imprenditore5.
1Assemblea Costituente, Discussioni, seduta dell’ 8 maggio 1947 p. 3713
2G. Tremonti, C. Jean, Guerre Stellari, FrancoAngeli, Milano 2000.
3J.E. Stigliz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2006, p. 77
4“Soltanto a sé stessa l’intraprendenza economica
può dare ad intendere di essere attuata principalmente sulla
base di una enunciazione delle sue prospettive, per quanto oneste e
sincere esse siano. Essa non è basata su un calcolo preciso di interessi
futuri, molto più di quanto non lo sia una spedizione al Polo Sud – per
questo se – le tendenze dell’animo si offuscano, e se l’ottimismo spontaneo
svanisce, lasciandoci dipendere solo da una speranza matematica,
l’intraprendenza illanguidisce e muore; anche se il timore di perdita può non avere una base più ragionevole di quella che aveva
prima la speranza di profitto”, J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta,
Utet, Torino 2005, p. 347-348
5Nelle situazioni di crisi economica, quando cioè le aspettative negative sul futuro mandano in stallo la macchina economica si prospettano tre alternative, scrive Keynes: “Gli individui devono essere indotti a spendere una parte maggiore
dei loro redditi; oppure il mondo degli affari deve essere spinto, con aspettative più ottimistiche o con un più basso saggio di interesse, a
creare un’addizionale reddito corrente nelle mani dei propri dipendenti […] oppure l’autorità pubblica deve essere chiamata in aiuto per
creare un reddito corrente addizionale attraverso la spesa di moneta
presa a prestito o indirettamente stampata per la spesa di moneta”, tuttavia “nei momenti difficili non
ci si aspetta che il primo fattore operi ad un livello sufficiente.
Il secondo, d’altra parte, comparirà soltanto in una successiva ondata di attacco alla crisi, dopo che la tendenza
è stata invertita da una politica di spesa pubblica. È perciò
solo dal terzo fattore che noi ci attendiamo un grosso impulso iniziale”, J.M. Keynes, Come uscire dalla crisi economica, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 110-111
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