Le gare al ribasso sono destinate alla sconfitta

ELETTROLUX

– ALFONSO SIANO –

Proviamo a mettere in fila tre notizie che sono apparse sui media nelle scorse settimane e vediamo di estrapolarne una riflessione. Mi scuso in anticipo per la semplificazione. La prima notizia riguarda la vicenda dell’Electrolux: la società multinazionale nel rivedere i propri piani industriali constata che il costo del lavoro in Italia è superiore a quello della Polonia, per cui propone ai lavoratori, pur di lasciare la produzione in Italia, di ridurre loro il salario. La seconda notizia riguarda la progressiva concentrazione della ricchezza: Banca d’Italia ci dice che nell’ultimo biennio, mentre il reddito familiare medio e la ricchezza media delle famiglie italiane calavano rispettivamente del 6% e del 6,9%, una quota ristretta della popolazione italiana si è arricchita ancora di più. In base alle ultime statistiche, il 10% delle famiglie più ricche possiede ora il 46,6% della ricchezza totale; nel 2010 il 10% delle famiglie più ricche possedeva il 45,7% della ricchezza totale. La terza notizia viene da Londra: uno studio del think tank indipendente Institute for Fiscal Studies mette in luce come le finanze statali di sua Maestà siano a rischio per il fatto che l’1% più ricco della popolazione britannica, ossia circa 300 mila persone, paghi il 27,5% delle tasse dirette ed indirette del Regno Unito. In altre parole se queste persone decidono di trasferirsi in un altro Paese si rischia che una buona fetta delle entrate fiscali del Regno Unito venga meno.

Tre notizie che inducono alla seguente riflessione: mentre da un lato in molti Paesi occidentali si assiste al progressivo impoverimento e declassamento del ceto medio, dall’altro lato negli stessi Paesi si va configurando una classe di persone sempre più ricche che, grazie alla possibilità di spostare agevolmente i propri capitali da un Paese all’altro, può addirittura arrivare a minacciare la stabilità finanziaria degli stessi Stati occidentali. L’impoverimento del ceto medio passa oggi soprattutto attraverso una diminuzione delle retribuzioni. Si dirà che occorre che il lavoro sia sempre più qualificato ed avanzato, per non subire la concorrenza al ribasso da parte dei Paesi dell’Est Europa o della Cina. E’ vero, ma mi chiedo: possiamo essere tutti scienziati? E’ indubbio che occorra agire sulla formazione del capitale umano e sulla ricerca industriale per poter elevare il livello qualitativo ed innovativo della produzione di beni e servizi. Ma quanto tempo richiederà questo processo e quale è la reale volontà di intraprendere questo percorso? Consideriamo che potrebbe anche prevalere l’interesse di quella fetta più abbiente di popolazione, che avendo più a cuore i propri interessi economici che non il bene comune del proprio Paese, persevera in approcci miopi che beneficiano pochi e danneggiano la maggioranza.

La globalizzazione ha senza dubbio allargato i mercati, ma sembra che per alcuni le cose siano andate di bene in meglio mentre per altri, la maggioranza, le cose siano andate un po’ diversamente. Questo è probabilmente accaduto perché l’allargamento della sfera dell’attività economica non è stato accompagnato da un processo di allargamento della sfera di influenza politica. Se così è, per correre ai ripari, oltre ad intraprendere iniziative politiche di lungo termine, sempre che l’Italia ne sia ancora in grado, è necessario porsi la domanda se possa essere ancora sostenibile la concorrenza con chi, come la Cina, produce con un costo del lavoro enormemente più basso oppure se occorra iniziare a riconsiderare una certa separazione tra mercati in modo tale da evitare l’iper-concorrenza che distrugge il nostro tessuto industriale, caratterizzato tipicamente dalla piccola e media impresa.

La soluzione del problema del lavoro non passa dunque lungo la mera riduzione del suo costo, come spesso si ventila dal lato industriale. A mio avviso occorre agire su più leve: burocrazia e giustizia efficienti e veloci, chiarezza delle regole, formazione e ricerca, attrazione di nuovi investimenti dall’estero, politica energetica, maggiore coraggio e capitalizzazione delle società da parte degli imprenditori, limitazioni al commercio internazionale con quei Paesi che non si adeguino ad un livello minimo di protezione dei lavoratori e dell’ambiente. Ma questa visione potrebbe non coincidere con chi invece ha interesse a capitalizzare sempre più la propria ricchezza alienandosi dalla comunità cui pure appartiene, ad effettuare incontrollati arbitraggi tra opportunità di investimento in vari Paesi, a realizzare complesse architetture imprenditoriali transnazionali in modo da ottimizzare la leva fiscale. Chiaramente la disponibilità di mezzi economici e di comunicazione consente alle élites di proteggere i propri interessi. Anche la legge elettorale che si profila all’orizzonte può rientrare in questo quadro: i capi, che non è detto siano stati eletti democraticamente, dei Partiti o meglio di quello che ne resta, determinano un Parlamento di nominati, ricattabili, mediocri. Agli elettori, alla massa, non resta che subire questo processo.

Ed ecco perché quando in televisione si sentono alcuni esponenti del mondo politico, imprenditoriale ed intellettuale, prevalentemente del centro destra, dire che la legge elettorale in fondo non interessa alla gente, ma ciò che interessa è il lavoro, occorre alzare la soglia di attenzione e stare in campana. E’ pacifico che il lavoro è oggi l’emergenza prioritaria. Ma la legge elettorale è fondamentale per poter eleggere una classe politica in grado di risolvere i problemi ed impostare, nell’interesse del bene comune del nostro Paese e non di una ristretta cerchia, anche la soluzione al problema lavoro. Soluzione che può non passare, come abbiamo visto, solo per la riduzione dei diritti e delle retribuzioni dei lavoratori.

Alfonso Siano

 

 

 

 

 

 

 

 

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