Metafisica e utopia: due idee di socialismo

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-RICCARDO CAMPA-

Due anni prima di morire, Eugenio Garin rilasciò un’intervista a «L’Unità», in cui esprimeva in poche semplici parole la sua idea di socialismo. Interrogato sul futuro dell’ex Pci, diventato Pds dopo il crollo del muro di Berlino, Garin rispose in questi termini: «Mi augurerei che il Pds riuscisse ad essere il vero partito socialista di cui l’Italia ha bisogno, capace di raccogliere la tradizione azionista e liberaldemocratica nell’alveo del socialismo democratico. Non mi preoccupano i contraccolpi che hanno investito l’idea del socialismo dopo il tracollo dell’Est. Quello a cui penso è il socialismo come utopia, non come concetto metafisico, come “idea regolativa” che non ha nulla a che fare con i sistemi totalitari realizzatisi storicamente» (Cfr. B. Gravagnuolo, Eugenio Garin. Festa di compleanno per un filosofo, «L’Unità», 4 maggio 2002).

Incalzato dal giornalista, che gli chiedeva se tra le “idee regolative” c’è ancora spazio per l’idea di progresso, Garin replicava dicendosi «cauto al riguardo, perché questa nozione conserva una certa aura ideologica. È legata alla fede in una razionalità intrinseca alle vicende storiche. La Storia è fatta di regressi e avanzamenti. L’utopia viceversa può delineare dinamicamente un miglioramento allargato delle condizioni di vita degli uomini, attento ai loro bisogni specifici. A patto che sia un’utopia resa saggia dall’esperienza, che non ci faccia pagare prezzi troppo alti». Sono poche semplici parole, ma dense di significato. Non so se quell’intervista, rilasciata all’età di novantatre anni da un intellettuale che è sempre stato schivo, lontano dai riflettori, possa essere vista come un testamento spirituale. Oltre che professore della scuola Normale superiore di Pisa, Garin era – come sottolinea lo stesso cronista de «L’Unità» – un «esponente di punta dell’intellighenzia democratica e azionista, vicino dal dopoguerra al Pci, al Pds e ai Ds». Ebbene, sarà stato “di punta”, ma è un fatto che il suo auspicio è rimasto inascoltato. Pochi anni più tardi, il Partito Democratico della Sinistra sceglierà infatti una strada diversa, cancellando dal nome il riferimento esplicito alla “sinistra” e, di conseguenza, ogni riferimento implicito al socialismo.

Nell’Ottocento si distinguevano i socialisti in utopici e scientifici, riferendosi ai seguaci di Saint Simon, Fourier e Owen, nel primo caso, e ai seguaci di Marx ed Engels, nel secondo. Oggi, più spesso, si distinguono i socialisti in riformisti e rivoluzionari, spesso intendendo per i primi quelli pacifici, quelli pronti al compromesso, e per i secondi quelli violenti, quelli pronti a menare le mani. Garin prende le distanze da entrambe le dicotomie. Per capire la sua scelta terminologica, dobbiamo allora tenere conto del fatto che il professore era un azionista. Il Partito d’Azione fondato da Giuseppe Mazzini nel 1853 e rifondato da Federico Comandini nel 1942 non era certo un partito “riformista”, se per riformista si intende irenico, pacifista, pronto al compromesso. Tuttavia, lo era, se con “riformista” si intende che voleva costruire sulle libertà borghesi e non contro le libertà borghesi. Il termine riformista è dunque polisemico. Ecco perché risulta estremamente interessante questo tentativo di qualificare diversamente la contrapposizione tra socialismi. Con questi termini, Garin sposta la questione dal piano mediatico al piano squisitamente filosofico, mettendo in campo due “idealtipi”, due contenitori concettuali nei quali si possono porre dottrine e movimenti realmente esistenti soltanto con una certa cautela, ma che si palesano come potenti strumenti interpretativi.

Innanzitutto, il socialismo come utopia viene ritagliato sullo sfondo dei fallimentari socialismi realizzati, i quali si sono notoriamente autodefiniti “scientifici”. Garin evita però di definire “socialismo scientifico” quello elaborato da Marx ed Engels e realizzato da Lenin e Stalin. Sul piano semantico è un passo fondamentale. Che il materialismo dialettico fosse la base scientifica del socialismo lo hanno deciso Marx ed Engels, i quali hanno perciò gettato nella pattumiera della storia il socialismo utopico. La propaganda comunista ha presentato a lungo Marx come “il Galileo delle scienze sociali”, ma c’è qualcuno oggi disposto a credere che la sociologia o l’economia abbiano un solido statuto scientifico? Sono discipline molto importanti per la comprensione della realtà, ma non sono scienze paradigmatiche in senso kuhniano, come la fisica o la biologia molecolare. Se non esistono “leggi della storia” paragonabili alla “legge della caduta dei gravi”, il paragone tra Galileo e Marx è del tutto fuori luogo – senza nulla togliere al valore intellettuale del filosofo di Treviri.

Inoltre, il socialismo di Saint-Simon, Fourier e Owen, o anche quello di Proudhon e Blanqui, faceva affidamento alla scienza non meno di quello pretenziosamente “scientifico” di Marx ed Engels. Possiamo anzi dire che non c’è socialismo che prescinda dalla scienza pura, come mezzo per la comprensione della realtà, e dalla scienza applicata, come mezzo per la sua trasformazione. Il socialismo nasce come figlio dell’illuminismo e fratello del positivismo, sebbene a differenza di genitori e parenti cerchi da subito di strutturarsi come movimento politico di massa e non solo culturale. È vero che, nella seconda metà del Novecento, sono nati anche movimenti di sinistra antiscientifici e antitecnologici, ma significativamente si sono posti fuori dell’alveo del socialismo, qualificandosi come ecologisti o anarchici. Se non c’è socialismo senza scienza – quand’anche intesa in senso debole, affinché possa includere le scienze sociali – nessuna variante del socialismo può essere distinta dalle altre a partire dal concetto di scienza.

Possiamo, al contrario, tenere fermo il concetto di utopia come base per definire una forma di socialismo. Garin dimostra notevole coraggio nel rivalutare questo termine-concetto, considerando che per un secolo e mezzo è stato utilizzato nell’ambito dei movimenti socialisti e comunisti per squalificare idee e proposte non condivise. Persino la Fabian Society, che prende le distanze dal marxismo rivoluzionario allo scopo di riformare pacificamente e gradualmente la società inglese in senso socialista, apre i propri lavori con una severa critica dell’utopismo. Si rimprovera al socialismo utopico, da Platone ai giorni nostri, di avere proposto idee di società non solo difficili, se non impossibili, da realizzare, ma anche intrinsecamente statiche. In realtà, la staticità è un dato della società utopica fino a un certo punto. È chiaro che l’immagine è fissa, proprio perché serve come idea “regolativa”. Tuttavia, il processo di realizzazione è già un processo storico. Inoltre, una volta realizzata in tutto o in parte, l’utopia sarebbe comunque immersa nel flusso degli eventi storici. L’utopia è da vedersi come una proposta di carta costituzionale. Se paragoniamo la società ad un veicolo, ciò di cui parla l’utopista è la struttura portante del veicolo, la quale parrà sempre statica ed uguale a se stessa, ma la sua funzione è quella di permettere al veicolo di muoversi e attraversare paesi e paesaggi. Lo scopo del veicolo è appunto il viaggio, la vita.

Se, per le ragioni appena esposte, riteniamo incongruo chiamare “scientifico” il socialismo realizzato, come possiamo chiamarlo? Garin utilizza il termine “metafisico”. E lascia poi intendere che questo tipo di socialismo implica la nozione di progresso come necessità storica, alludendo dunque alla dottrina di Marx ed Engels. Anche l’aggettivo “metafisico” è stato utilizzato spesso in modo spregiativo. La connotazione negativa è stata acquisita dal termine “metafisica” proprio sulla scorta dei lavori di un socialista utopico, Saint-Simon, e del suo allievo Auguste Comte. A livello semantico ci troviamo quindi in una situazione di perfetta parità. Sia chiaro che qui utilizziamo le due espressioni – “socialismo come utopia” e “socialismo come metafisica” – in modo tecnico, senza attribuire a priori significati negativi o positivi all’una o all’altra prospettiva. Sulla natura “metafisica” del comunismo marx-engelsiano ha scritto pagine illuminanti Luciano Pellicani, nel libro La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario (Rubbettino, 2012), al quale rimando per un approfondimento.

Per comprendere che è appropriato definire “metafisico” il socialismo di Marx ed Engels, senza con questo volerlo denigrare, si può anche tenere a mente lo sviluppo dell’epistemologia nel XX secolo. È opinione diffusa tra i filosofi e gli storici della scienza che non c’è teoria scientifica priva di un nucleo metafisico. La stessa teoria atomistica, che ha aperto innumerevoli strade alla scienza empirica, è un’idea metafisica. E, proprio per questo, positivisti rigorosi come Auguste Comte e Ernst Mach invitavano a non utilizzare la nozione di atomo in fisica. Nessuno infatti ha ancora dimostrato, e forse nessuno potrà mai dimostrare, qual è la natura ultima della materia. Su questo, del resto, ha insistito molto anche Proudhon nel primo capitolo de La filosofia della miseria. La dimensione metafisica di certi assunti della scienza – come l’idea di spazio e di tempo assoluti nella fisica di Newton – diventa evidente a tutti soltanto quando la teoria scientifica viene superata e rimpiazzata da una teoria concorrente, ma gli scienziati più accorti sanno bene che molte delle nozioni che maneggiano sono aldilà di ogni prova empirica diretta. E tuttavia sono utili per l’investigazione della realtà.

Se è un’idea metafisica il “materialismo atomistico”, possiamo forse affermare a cuor leggero che non è un’idea metafisica il “materialismo storico”? Così come la concezione nomotetica della scienza naturale è corollario del postulato metafisico della struttura ordinata della materia, la concezione nomotetica del socialismo marxiano è corollario del postulato metafisico della struttura ordinata della storia. In questo preciso senso, Proudhon afferma che lui, pur scettico, ha bisogno dell’“ipotesi di Dio” – quell’ipotesi di cui Laplace affermava invece di non avere bisogno – per dimostrare la possibilità di una scienza sociale. Al contrario, il socialismo utopico inteso come “tipo ideale” non è affatto metafisico, perché non presuppone “leggi della storia”, né determinismi o necessità. Può individuare trend storici e adeguarsi o meno ad essi, ma in ogni caso pone in tutta coscienza la Città socialista come ideale, o se vogliamo restare alla terminologia di Garin come idea regolativa. L’ideale può essere più o meno fantastico, più o meno plausibile, ma tra la realtà e l’ideale c’è uno scarto evidente allo stesso utopista, il quale sa anche che tra la realtà e l’ideale non c’è altro nesso che la volontà, la capacità e l’iniziativa degli attori storici.

È vero che la stessa nozione di volontà ha una dimensione metafisica, ma non è necessario discutere e chiarire che cosa si intende per volontà ogni qual volta si decide di passare all’azione. La contrapposizione dualistica tra me e l’altro da me, tra coscienza che percepisce e mondo esterno percepito, come sottolinea Proudhon, è un dato di fatto a prescindere da ogni spiegazione metafisica di questo dualismo. Al contrario, bisogna prima chiarire che cosa si intende per leggi della storia, se da esse si presume provenga un invito ad agire o a non agire. Ed è proprio quello che fanno Marx ed Engels nella loro opera. La differenza fondamentale tra socialismo come metafisica e socialismo come utopia è che il primo ci racconta “la società come deve essere”, mentre il secondo ci racconta “la società come sarebbe bello che fosse”.

Per il metafisico, la società non è come deve essere perché è malata, lontana da uno stato naturale di salute, a causa di un evento anomalo, di un peccato originale commesso da qualcuno, in qualche luogo e qualche tempo più o meno remoto, che ha falsato la realtà. Questo peccato originale è per i comunisti l’invenzione della proprietà privata, mentre per gli ecologisti radicali è la rottura del patto tra uomo e natura determinato dall’invenzione delle tecniche e della civiltà. La “Gnosi rivoluzionaria”, come la chiama Pellicani, ha il compito di redimere l’uomo dal peccato originale, portando il piano metafisico della società a coincidere nuovamente con il piano reale, ripristinandone lo stato di salute. Il socialismo metafisico non si avventura nella delineazione della società ideale, non scrive «ricette per le osterie dell’avvenire», giacché appoggia interamente sulla fede che sia sufficiente la “negazione della negazione” per redimere l’uomo. Una volta negato il capitalismo, che è negazione della società perfetta metafisica, ovvero malattia, non può che scaturire automagicamente la salute della società. Perciò, il metafisico si riconosce perché ricorre spesso ai concetti medici di “patologia”, “diagnosi”, “terapia”, “prognosi”, per spiegare i fenomeni sociali. Per il metafisico sociale, il consumismo o la disgregazione della famiglia o gli stili di vita generati dalle nuove tecnologie, non sono mutamenti del costume che soggettivamente non apprezza. Per il metafisico sociale queste sono patologie. Il metafisico deve dunque presupporre uno “stato di salute” della società, posto su qualche piano oltre la realtà, per poter trattare i fenomeni indesiderati alla stregua di malattie. In questo preciso senso è meta-fisico.

Data questa psico-logica, questo schema mentale, il metafisico sociale non è necessariamente un progressista. Può anzi essere anche un reazionario, nella misura in cui è convinto che la società sana è alle nostre spalle e la soluzione a tutti i problemi consista nella negazione della modernità e nel ritorno ad un’età aurea antecedente, che può essere quella del Medioevo come quella dei cacciatori raccoglitori del Paleolitico. Diversa la situazione nel caso dell’utopista. Per l’utopista la società reale non è pienamente soddisfacente, ma non per questo è “anomala” o “patologica”. La società reale è insoddisfacente nella sua normalità. L’utopista è convinto che si possa andare oltre la normalità e vuole perciò spingersi oltre. Sono l’ignoranza e la mancanza di coraggio a causare la persistenza di una società insoddisfacente (Sant Simon, Fourier e Owen insistono molto su questo aspetto). Ma non c’è nessuna legge storica che possa garantire il trionfo della volontà, della conoscenza, del coraggio. Perciò, gli utopisti cercano di edificare la propria società ideale partendo da esperimenti in piccola scala o dispensando consigli ai detentori del potere. Non attendono il verificarsi delle condizioni storiche per una trasformazione integrale di tutta la società, o l’arrivo di un Salvatore, di un soggetto storico che si assume il ruolo di redimere l’umanità, sia la classe operaia di Marx ed Engels, gli immigrati e i marginali di Herbert Marcuse, o la moltitudine di Toni Negri.

Gli utopisti ritengono di essere loro stessi a dover dare inizio al processo di cambiamento, costruendo una città o una comunità secondo i propri principi. Oppure si appellano a chi detiene il potere, o affiancano chi detiene il potere in veste di consiglieri. Pitagora, Platone, Plotino, Campanella, Owen, Fourier, Saint Simon, Marinetti, ecc., assumono proprio uno di questi ruoli. Gli utopisti credono – a torto o a ragione – nella ragionevolezza e nella fattibilità della propria visione. Perciò, cercano spesso di realizzarla in piccola scala, sicuri che, se funzionerà, l’assetto societario si estenderà a tutto il paese o a tutto il mondo, per imitazione, per contagio, con la forza della propria razionalità. Questo spesso non si verifica. Quando invece si verifica, non chiamiamo più “utopie” i tentativi iniziali. Dimentichiamo il carattere “onirico” del progetto iniziale. Invece dovremmo ricordarlo.

Per concludere, quando scopriamo che ottantacinque individui – 85 – posseggono ricchezze pari a quelle di tre miliardi e mezzo – 3.500.000.000 – di persone su questo pianeta (è un dato dell’Oxfam, un’associazione di beneficienza britannica), possiamo pensare che questa è una situazione ingiusta e dannosa per l’economia che deve essere corretta, oppure che si tratta di una malattia della società umana. Per correggere la situazione, possiamo mettere in campo la nostra volontà, anche cominciando da piccoli progetti che riguardano singole città, regioni, paesi, cominciando a dire no a quelle 85 persone e a chi si è posto al loro servizio. Oppure possiamo pensare che un giorno, quando i tempi saranno maturi, la situazione si ribalterà su tutto il pianeta e l’organismo sociale tornerà allo stato di salute, in base alle leggi che ne governano lo sviluppo. Nel primo caso siamo socialisti utopici. Nel secondo caso siamo socialisti metafisici. Una cosa che un socialista non dovrebbe mai fare è pensare che sia giusto o immodificabile un mondo in cui 85 plutocrati possiedono tanto quanto tre miliardi e mezzo di persone. Per questo ci sono già i conservatori.

Riccardo Campa

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

One thought on “Metafisica e utopia: due idee di socialismo

  1. pezzo impegnativo, ma molto acuto, molto ben scritto. Ci fa riflettere: abbiamo ancora bisogno di una dose di utopia! Grazie per questo contributo, Edoardo Crisafulli

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