Spari in piazza: vecchia politica, nuova violenza?

violenza a romaIl caso della sparatoria avvenuta davanti Palazzo Chigi ha scosso l’opinione pubblica, com’era ovvio. Messa da parte la solidarietà per i servitori dello stato feriti nello scontro, i media hanno inevitabilmente cominciato ad interrogarsi sul rapporto tra questo emblematico episodio, avvenuto nel giorno del giuramento del nuovo governo, e il clima di tensione che si respira nel paese. Il dibattito si è avvitato sulle responsabilità morali e politiche di Beppe Grillo e del suo movimento, colpevole di esacerbare gli animi con il suo linguaggio provocatorio e violento: mi asterrò dal giudizio, limitandomi a rilevare che troppi commentatori e politici si sono scoperti improvvisamente filologi, dopo lustri di insulti e iperboli con cui hanno privato il dibattito pubblico di ogni significato. M’interessa piuttosto discutere se esista o meno un collegamento reale tra la follia omicida dello sparatore e la grave crisi, non solo economica, in cui versa il paese.

Una delle vulgate più diffuse sugli anni di piombo suggerisce che la violenza fosse generata dalla forbice tra le aspettative di vita delle masse, sospinte dalla modernizzazione e pertanto sempre più elevate, e le loro condizioni materiali di esistenza. Le nuove generazioni, in particolare, avrebbero subito la frustrazione dell’assenza di sbocchi politici e alternative di governo (situazione che sarebbe culminata, non a caso, nel compromesso storico ferocemente avversato dai brigatisti), reagendo nei casi più estremi attraverso la lotta armata. Questa tesi poggia sulle teorie delle rivoluzioni di seconda generazione, che fanno affidamento su alcuni fattori psicologici per spiegare l’insorgere della violenza organizzata: non è la privazione in sé a fomentare la rivolta (la miseria vera crea sottomissione, non rivoluzione) bensì la privazione relativa, cioè lo scarto con le aspettative sociali. Più ampio è lo scarto, maggiore sarà la tensione che può far saltare il tappo della violenza, come l’effetto di un vulcano.

L’interpretazione appena fornita (conosciuta dagli addetti ai lavori come “curva di Davies”, dal nome del sociologo americano che l’ha elaborata in un modello formale) può essere utile a spiegare la popolarità delle proteste di massa di quegli anni: prima del boom economico, la società italiana non aveva mai conosciuto un benessere tale da consentirle di rivendicare alti ideali, invece di lottare per soddisfare i bisogni materiali. Tuttavia non spiega come e perché la protesta si evolve in violenza organizzata, se non addirittura in una vera e propria rivoluzione, come sognavano alcuni gruppi autonomi e i brigatisti stessi. Qual è il punto di rottura della tensione sociale? Le teorie delle rivoluzioni di terza generazione spostano l’attenzione dai fattori psicologici alle condizioni socioeconomiche, quali possono essere la solidità delle istituzioni e l’equilibrio dei rapporti di forza tra i blocchi sociali; tutti elementi che, fortunatamente, erano in buono stato di salute e hanno retto all’impatto del terrorismo, scongiurando il collasso dello stato. Ma le ragioni della violenza negli anni di piombo, proprio perché non rappresentavano gli interessi di un autentico blocco sociale (come invece accade quando insorgono le vere rivoluzioni, sostengono i teorici di terza generazione come Tilly e Skocpol), necessitano di un’ulteriore spiegazione. In “Anatomia delle Brigate Rosse”, edito da Rubbettino e ripubblicato da Cornell University Press, Alessandro Orsini ha argomentato in modo convincente ed empiricamente dettagliato come la causa primaria dei fenomeni terroristici sia l’ideologia, capace di organizzare la violenza anche quando questa non abbia radici strutturali.

Tornando allo scenario attuale, il paese vive certamente un periodo di crisi molto grave, il più tragico dal dopoguerra, e sarebbe proprio il caso di restituire senso e misura alle parole della politica, sia per ricostruire un dibattito pubblico sano e maturo che ci aiuti a risolvere i problemi, sia per evitare di gettare benzina sul fuoco. Ma non c’è ragione di credere che esista una connessione tra il gesto isolato di un folle e la protesta, seppur vibrante e talvolta aggressiva, di cittadini esasperati  Suggerire il contrario è un alibi di comodo per una classe dirigente fallimentare che si rifiuta di ammettere le proprie responsabilità. Il Movimento 5 Stelle e il suo indotto hanno molti, troppi tratti moralistici e demagogici che fanno eco all’ottusità di ideologie nefaste. Ma è solo un’eco, che si perde nella mitologia della società civile e della democrazia liquida, o addirittura nel folclore dei microchip e delle cospirazioni internazionali. Nessuna ideologia governa realmente quel 25% di cittadini esasperati, che neppure appartengono allo stesso blocco sociale; perciò è vero, come ha ribadito Barbara Spinelli in una brillante analisi apparsa sulle pagine di Repubblica, che il movimento di Grillo sia un argine contro ben peggiori “albe dorate” e che non costituisca una minaccia reale, dato che non sarebbe in grado di organizzare la violenza.

Insomma, le derive terroristiche sono sempre in agguato, come dimostrano i casi di Marco Biagi e Massimo D’Antona, perché il focolaio delle ideologie non si spegne mai, ammonisce Orsini. La crisi non aiuta, è ovvio: ma non giustifica atti del genere, né tantomeno li spiega sociologicamente. Un disperato che spara ai carabinieri non è presagio né sintomo di alcunché. Semmai la violenza tornasse, lo stato dovrebbe farsi trovare preparato: per questa e per mille altre ragioni, invece di gridare al lupo, la politica dovrebbe sbrigarsi a restituire alle istituzioni democratiche la dignità che le spetta.

Mario Trifuoggi

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