Pubblichiamo in due parti il saggio di Vittorio Emiliani già pubblicato su “Mondoperaio” del gennaio 2010, riprodotto nel volume “Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista 1959-2012” Bononia University Press, ottobre 2012.
Giornalista sono nato, giornalista sono stato, giornalista sarei dovuto rimanere. Così si esprime, a un dipresso, Pietro Nenni dal fondo dell’abisso di pessimismo nel quale è precipitato dopo la batosta elettorale del Fronte Popolare, il 18 aprile 1948. Di essa, certo, il leader del Psi porta grande responsabilità avendo molto premuto per il listone unico Psi-Pci sconfitto storicamente, coi socialisti massacrati dai comunisti nel gioco delle preferenze. Da una parte Nenni mette così, crudamente, a nudo i limiti di chi è nato ed è stato giornalista (grande giornalista però), portando a volte in politica un certo pressapochismo. Dall’altra riconosce al giornalismo, praticato fin da prima dei vent’anni, un ruolo davvero centrale nella propria esistenza. “Ha qualità di primo ordine come giornalista generico. Poca o punta preparazione culturale, moltissimo intuito politico (…). Per ora andiamo molto bene d’accordo.” Così lo ritrae, nel 1926, al tempo in cui collaborano per “Il Quarto Stato”, Carlo Rosselli, politico colto, docente di economia, in rapporto con John M. Keynes, in una lettera alla madre.
Quasi sempre, nel raccontare la formazione del giornalista politico Pietro Nenni, la si accomuna a quella di Benito Mussolini di otto anni più anziano di lui e però cresciuto come lui nel pieno del ribellismo post-unitario, con spunti frequenti di insurrezionismo derivati dal Risorgimento, in Romagna popolare oltre che borghese. Con una questione sociale molto pressante che i dati dell’Inchiesta Agraria dell’83 evidenziano in modo drammaticamente esemplare: una regione decisamente povera; città come “assediate” da masse di lavoratori senza terra disoccupati la più parte dell’anno; tassi di analfabetismo che nelle campagne superano l’80 per cento. Coi socialisti riformisti alla maniera del grande Nullo Baldini di Ravenna (1862-1945), che a poco più di vent’anni organizza la prima cooperativa, l’Associazione Braccianti, la quale bonificherà – fra sacrifici, stenti e morti precoci per malaria e tifo fulminante – prima Ostia Antica e poi Maccarese. Nenni e Mussolini, oltre che vivere, soprattutto nel periodo forlivese (nel 1911), una parte di vita comune, emergono presto, entrambi, come grandi comunicatori, oratori di piazza trascinanti e giornalisti dalla scrittura rapida, scandita, polemica, spesso a slogan.
Il giovanissimo Pietro Nenni, nato a Faenza, città di cardinali, la sola “enclave bianca” nella Romagna anticlericale, socialista e repubblicana, racconta la propria infanzia e adolescenza, l’iniziazione alla cultura e alla politica, in “Pagine di diario”, pubblicato da Aldo Garzanti (anch’egli romagnolo, di Forlì, e mazziniano) nel lontano 1947. A mio avviso, una delle testimonianze più belle, asciutte, drammatiche e appassionati fra quelle della generazione nata alla fine dell’Ottocento. Vale la pena di riprodurne qualche passaggio. Anzitutto quello in cui ricorda come, morto precocemente il padre, fattore dei conti Ginnasi, la signora contessa “si considerò in regola con gli obblighi della cristiana solidarietà quand’ebbe ottenuto di farmi vestire per oltre dieci anni l’uniforme nera a filetti rossi dell’orfanotrofio cittadino (…) I dieci anni di orfanotrofio sono stati l’inguaribile piaga della mia vita. A questa claustrazione devo un certo complesso di rivoltoso che non mi ha più abbandonato”…Sono anni di avvicinamento all’idea repubblicana, sono anni di letture disordinate e intensissime, Victor Hugo, “I miserabili” soprattutto, Eugène Sue coi “Misteri di Parigi”, Michelet e la sua storia della rivoluzione francese e poi le vite di Mazzini e di Garibaldi scritte da Jesse White Mario, Leopardi, Carducci e Pascoli, avendo però quale autore preferito Giuseppe Mazzini e le sue lettere alla madre. Finite le elementari, qualcuno accarezza per lui l’idea del Seminario, che il giovanissimo Pietro respinge (parole sue) con “le forme blasfematorie più brutali”. Consegue la licenza tecnica e si impiega in un laboratorio di ceramica. Mesi felici soprattutto “dietro al tornio dei ceramisti” (un’arte tipica della sua città nota nel mondo per le faïences, le faenze). A 17 anni, “col magro viatico di un salario settimanale di dieci lire, chiesi e ottenni di svestire l’uniforme della pubblica beneficenza”. In quello stesso 1908, il 5 aprile, firma il suo primo articolo sul “Popolo” di Faenza. Comincia qui la “carriera” giornalistica di Pietro Nenni, che si sviluppa attraverso la collaborazione costante al settimanale repubblicano “Il Lamone” con “trafiletti romantico-sentimentali” (ancora parole sue) in cui echeggia il ribellismo delle “bombe alla Orsini (l’attentatore, romagnolo e repubblicano, di Napoleone III, n.d.r.) o del pugnale di Armonio o di Passanante”. La partecipazione ad uno sciopero gli costa il posto nella ceramica. “Il mio destino fu tracciato: sarei stato un propagandista, anzi un agitatore”. Il quale però – alla maniera delle gazzette risorgimentali – impugna la penna come una spada lungo il percorso irto di contrasti così ben raccontato e inquadrato da Giuseppe Tamburrano nella vasta biografia “Pietro Nenni” (Laterza, 1986) e da Gianna Granati, segretaria della Fondazione Nenni, in “Pietro Nenni, protagonista e testimone di un secolo, 1891-1991”.
Giovanissimo, scrive articoli violentemente anti-monarchici e si fa condannare per aver ostentatamente fischiato la banda che suona la Marcia reale. Nel 1909 è fra Milano, dove l’ha chiamato un politico repubblicano già noto, il garibaldino Enrico Chiesa, e la Toscana dove organizza i primi scioperi politici, fra i cavatori della Lunigiana. Poi, in Romagna, dirige, a soli 19 anni, il settimanale repubblicano “Il Pensiero romagnolo”. A Civitella, sull’Appennino verso la Toscana, trova un lavoro al catasto. In realtà si occupa assai di più del periodico “La Scopa”, fondato dal socialista Torquato Nanni. Scrive a sostegno delle lotte per il 1° Maggio, finché non arriva, anche qui, il licenziamento e il ritorno a Faenza dove è ormai “vigilato” a vista. Preferisce il repubblicanesimo: gli suggerisce un’idea forte di libertà rispetto al socialismo riformista, un po’ piatto ed “economicista”. A Forlì, destina non poco impegno al foglio di partito “Il Pensiero romagnolo”, ma collabora anche a “Lotta di classe” diretta dal socialista Mussolini che con quel periodico si è ormai fatto una fama nazionale, dirigendo spregiudicatamente la federazione locale.
A vent’anni, nel 1911, Nenni assume la segreteria della Camera del Lavoro repubblicana e con Benito Mussolini, all’epoca fortemente influenzato da Georges Sorel (studiato e amato da un altro grande giornalista, poi amico di Nenni, Mario Missiroli, bolognese, originario di Russi), organizza a Forlì il famoso, riuscito sciopero generale contro l’intervento in Libia, che costa ad entrambi processo e carcere duro (in primo grado vengono condannati ad un anno di galera, poi ridotto in appello). Quando scrive o parla, le sua frasi sono come fucilate: “Alle urne bisogna sostituire le barricate”. Presto passa nelle Marche, dove è giunta la sua fama di vulcanico organizzatore politico e di polemista senza paura (processi e giorni di prigione fioccano). Là viene chiamato per le prime vere esperienze giornalistiche e direttoriali (sempre impastate con una frenetica attività politica). A Jesi, infatti, dirige il giornale repubblicano “La Voce” ed è corrispondente del bolognese “Giornale del Mattino”. E’ molto vicino all’Unione Sindacale Italiana (USI), il sindacato dell’anarchico Armando Borghi di Castelbolognese, allievo di Errico Malatesta, in competizione con la riformista CGdL. Scrive parole di fuoco: “Noi dobbiamo odiare chi ci opprime, chi ci calpesta, chi ci percuote”. E il fuoco si accende in Ancona – dove l’hanno chiamato a dirigere il vecchio foglio repubblicano e anticlericale “Il Lucifero” – dopo che il congresso socialista ha sancito la vittoria del tribuno Mussolini ancora amico di Nenni e dopo che nel partito repubblicano sono diventati maggioranza gli “intransigenti” alla Oliviero Zuccarini. Scoppia, da Ancona a Ravenna, la “settimana rossa”, un grande lampo rivoluzionario e pacifista, l’ultimo, prima della guerra. Mussolini resta prudentemente a Milano dove dirige da due anni, con grande successo (500.000 copie di vendita) “l’Avanti!”, mentre Nenni si butta con la solita foga dentro quel moto tanto fiammeggiante quanto utopico.
E’ l’ultimo Nenni “rivoluzionario” in senso stretto. Anche come giornalista. Dopo il processo per i fatti di Ancona, tutto cambia. Gli accordi fra le sinistre vanno in pezzi con l’uccisione a Sarajevo dell’Arciduca Rodolfo e con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Lui diventa interventista, come il leader repubblicano romagnolo Giuseppe Gaudenzi, come intellettuali del calibro di Gaetano Salvemini e di Piero Calamandrei. Costituiscono la componente “democratica” dell’interventismo che vede nel conflitto il completamento del Risorgimento con l’acquisizione di Trento e Trieste. Mussolini abbandona i socialisti e l’”Avanti!”, diventa interventista, ma per altre ragioni. In primo luogo ha capito benissimo che da socialista non raggiungerà mai il potere. In secondo luogo intuisce, alla maniera di Lenin, che la guerra cambierà radicalmente l’Europa e quindi l’Italia, e che, dunque, bisogna cavalcarla. Fonda, anche con finanziamenti francesi (che peraltro vanno pure ad altri giornali, nonché, personalmente, a Edoardo Scarfoglio e a Matilde Serao) il “Popolo d’Italia”, una nuova tribuna alla quale collabora anche il giornalista Nenni. Che presto se ne procura un’altra: è il radicaleggiante “Giornale del Mattino”, proprietà del forlivese ingegner Giuseppe Pontremoli. Lo stesso che dirige il progressista “Secolo” di Milano e che vende ai cugini Perrone (titolari dell’Ansaldo di Genova) il “Messaggero” di Roma. Pontremoli, mentre Nenni è a Bologna, in licenza, per una ferita riportata al fronte, gli propone addirittura la direzione del “Giornale del Mattino”. E’ riluttante, ma Pontremoli lo rassicura: “E’ più facile dirigere un giornale che puntare un cannone”. In quel periodo rafforza l’amicizia con Mario Missiroli (di poco più anziano di lui, è dell’86) il quale dirige fino al 1921 il “Resto del Carlino” e dal 1921 al 1923 “Il Secolo” di Milano, lanciando un giovanissimo saggista spento a soli 25 anni dalle percosse squadriste, Piero Gobetti. Missiroli – che nel secondo dopoguerra sarà il prototipo del direttore prudente e moderato (pur favorevole al passaggio di Nenni e del Psi nell’area governativa) – è, in questo periodo, accesamente anti-mussoliniano. Ha un duello alla spada col futuro duce, a Milano, dalle parti di San Siro, il 23 maggio 1922. Mussolini se lo ritrova fra gli accusatori per il delitto Matteotti, lo farà licenziare dalla “Stampa”, lo escluderà dall’Albo ufficiale dei giornalisti negandogli la indispensabile tessera del PNF. In pratica, lo ridurrà al silenzio per l’intero ventennio. (1-continua)
Vittorio Emiliani
Pietro Nenni ha avuto la irresistibile idea di legare con i compagni del PCI, magari con il sogno (subito interrotto) di unificare nuovamente tutta la sinistra italiana. Ahimè, dopo la sconfitta del Fronte Popolare, l’unico vero sconfitto politico fu proprio il Partito Socialista Italiano. Relegato da quel momento in avanti a dover rincorrere per tutta la prima repubblica, prima del socialismo craxiano, il PCI.
Nenni resta comunque nel ricordo del popolo della sinistra uomo esempio ed espressione di una politica pura fatta di ideali e passione.
Ce ne fossero ancora come lui….avesse saputo di Craxi.