Quando si discorre della crisi di popolarità che sta vivendo il sistema capitalistico, bisogna preventivamente chiarire a quale capitalismo ci si riferisce. Due (almeno) le forme che abbiamo maggiormente visto contrapporsi: il modello “classico”, basato su un culto “totemico” del libero scambio, ostile a qualsiasi regolamentazione, che poco concedeva ai diritti e ai bisogni dei meno abbienti; e il modello “renano”, con più attenzione per una disciplina che, fungendo da bussola, ne impediva gli eccessi, lo indirizzava nei momenti di ciclica difficoltà e tutelava anche le posizioni dei meno abbienti. Fino alla fine degli anni ’80, i cosiddetti <<trent’anni gloriosi>>, questa forma di capitalismo dal volto umano era riuscita a placare gli appetiti del suo fratello più ferino. Inaugurando, col patto socialdemocratico, un momento d’invidiabile benessere, dove quasi tutti potevano vantare condizioni dignitose di vita.
Improvvisamente (e colpevolmente) quest’idillio è terminato. E, come da tradizione, il capitalismo è finito sul banco degli imputati. Ma non è il capitalismo in sé a essere avversato, bensì la sua involuzione: dalla forma umana alla più classica e feroce di matrice ottocentesca, che all’altare del profitto ha sacrificato tutto, dagli equilibri sociali ai bisogni dei più deboli. Due, su tutte, le cause che hanno favorito quest’involuzione: le politiche di deregulation, cominciate negli anni ’80 e continuate incalzanti fino agli inizi del XXI secolo, e la globalizzazione incontrollata dei mercati. Le prime hanno consentito il “boom” di quel pericoloso capitalismo finanziario che, approfittando dell’anarchia dei mercati e dell’esiguità dei controlli, ha permesso a banchieri senza scrupoli di generare utili elevatissimi utilizzando prodotti finanziari rischiosi. Gli stessi che avrebbero poi (impunemente) generato una serie di conseguenze devastanti sull’economia mondiale, condizionando gli equilibri sociali di tante nazioni e i redditi di milioni di cittadini. La globalizzazione, da par suo, in assenza di un sistema “globale” di rules che governassero i mercati e i processi produttivi, più che benessere ha generato miseria. Le “grandi imprese” hanno spesso trasferito la produzione in paradisi produttivi dove, sfruttando la preistorica tutela dei diritti, si produceva di più e a minor costo. E quando non l’hanno fatto, hanno utilizzato la delocalizzazione come arma di ricatto per estorcere ai governi nazionali condizioni pesanti e persino inimmaginabili fino a qualche decennio fa. Così il lavoratore occidentale, quando non ha perso il lavoro, è entrato in concorrenza, sia da un punto di vista retributivo che delle tutele, con il lavoratore dei paesi emergenti. Tutto questo, pur garantendo nel breve periodo alti profitti alle imprese, ha finito con l’impoverire la società e le economie nazionali: i redditi sono diminuiti, il costo della vita, causa anche la globalizzazione, è aumentato, i consumi sono crollati. Si è generata così una spirale di malcontento che ha trovato proprio in questo capitalismo dai denti aguzzi il vaso di Pandora di tanti mali.
Tanto che ora sono molti a interrogarsi sulla sostenibilità di questo capitalismo liberista fino all’eccesso. Lo stesso Financial Times, autorevole giornale della City, ha recentemente inaugurato una rubrica dal titolo “Capitalism in Crisis”, dove dibattere ai fini di una sua riforma. Si dirà: la storia si ripete. Anche nell’Ottocento non poche furono le invettive contro gli squilibri e le sofferenze sociali prodotte dal capitalismo in fasce. Allora bastarono le riforme. Oggi la situazione è più complicata; e la soluzione non è a portata di mano. Ma due, per ora, sembrano le alternative: o si retrocede ulteriormente, con tutte le conseguenze sociali che questo potrà comportare; o s’interviene per responsabilizzare il capitalismo, incominciando a regolare fenomeni come la finanza e il mercato globale. Affinché possa risorgere un mercato più assennato, meno insensibile ai problemi e ai bisogni sociali. Addomesticare il capitalismo non è impossibile. In passato, con le riforme, ci si è riusciti. E chissà che guardandoci alle spalle, certe soluzioni non conservino una loro intatta vitalità. La politica, però, non deve più stare ad assistere in una posizione equivoca (e di correità). Deve, anzi, tornare a rivendicare la sua autonomia dall’economico. Questa svolta, infatti, è difficile possa essere il risultato di una singolare redenzione del capitalismo stesso. A noi la scelta: avanzare o continuare a retrocedere?
Sabatino Truppi
Il nostro blog si occupa spesso della crisi del capitalismo nella ricerca di una via nuova ad un nuovo socialismo. Se Truppi me lo consente, lo scopo non può limitarsi all’ “autonomia della politica dall’economico” ma deve progettare una iniziativa della politica. La nostra formula è non l’alternativa tra lo Stato e il mercato, ma “Stato e mercato”. E su questo tema ci sembra utile riflettere e discutere