Diritti e doveri

 Il linguaggio della sinistra è arcaico. Il problema deriva dal fatto che le nostre categorie politico-filosofiche sono state scolpite nella pietra. Ci vuole una ventata di revisionismo. La sinistra si fonda – più ancora che sull’equità o sull’uguaglianza – sulla cultura dei diritti. È così dalla Rivoluzione francese. La gente comune l’ha capito: “voi di sinistra parlate solo di diritti”. Pane per i denti dei conservatori, che ne hanno approfittato per imbastire campagne propagandistiche. Ma i diritti non sono l’alfa e l’omega. Pare che Bobbio volesse scrivere un saggio dopo L’età dei diritti. E voleva intitolarlo L’età dei doveri. In verità, già nell’Ottocento intellettuali progressisti di fede democratica pigiavano sul tasto dei doveri del cittadino: Mazzini scrisse il memorabile I doveri dell’uomo; Coleridge, turbato dagli eccessi della Rivoluzione francese, in cui inizialmente aveva creduto, era molto perplesso sul primato dei diritti.

Perché la sinistra occidentale non ha ascoltato? Semplice: perché è stata sviata da un marxismo spurio: “poiché il lavoratore, in una società capitalistica, viene sfruttato, egli per definizione è una vittima. Dunque ha sempre ragione”. Il lavoratore è titolare di diritti, quasi mai di doveri. Questa logica era sensata negli anni dell’industrializzazione, del lavoro minorile, delle 70 ore settimanali. La lotta di classe, allora, era spietata. Il ”padrone” comandava; gli operai obbedivano. Ma i tempi sono cambiati da un bel pezzo. Eppure quella logica ha continuato a riproporsi, autisticamente. Negli anni Sessanta, eccezion fatta per il mitico Giorgio Amendola, dirigenti politici e intellettuali radical-chic strizzavano l’occhio agli “scioperati”, a chi boicottava la produzione, a chi produceva meno per mera ripicca. Nell’Unione Sovietica, culla del socialismo realizzato, i comunisti capirono che una società non si regge solo sui diritti. Sicché inventarono il mito “Stachanov”: l’uomo nuovo che si sacrifica alla catena di montaggio per la rivoluzione e il proletariato. Non ha funzionato, e non poteva funzionare: la cultura dei doveri, non solo quella dei diritti, fiorisce solo nelle società libere e democratiche.

L’egemonia culturale di una certa sinistra ha generato un ”senso comune” che va messo in discussione. Oggi molti – anche fra coloro che votano a destra – ragionano solo in base ai loro diritti: pretendo un lavoro (= perché ho diritto a uno stipendio, a ferie e quant’altro); chiedo la pensione (= ho diritto a una sinecura). Diritti sacrosanti. Il problema è che spesso sono concepiti come diritti a prescindere. Quello che io, come lavoratore e cittadino, devo corrispondere in cambio, è secondario Pensate all’atteggiamento sulle pensioni di anzianità. Ricordate, poi, la folle teoria del salario come variabile indipendente? L’importante è ricevere, non dare. Anche perché non mi identifico in una comunità di cittadini: vivo piuttosto in una società capitalistica alienante, dominata da potenze a me ostili. Stiamo ancora smaltendo i postumi di una colossale ubriacatura ideologica.

Diciamolo una buona volta: il lavoratore, nel pubblico o nel privato, non ha sempre ragione. Quando non fa il suo dovere, ha torto. Brunetta si è mosso male, certo. Ma su un punto aveva ragione: ci sono impiegati pubblici fannulloni. È sotto gli occhi di tutti. Marchionne sarà inflessibile, certo. Ma anche lui sulla produttività in fabbrica ha ragione. Cosa è cambiato in Italia negli ultimi vent’anni? È venuta meno l’etica del lavoro. I nostri padri, nati negli anni Trenta, avevano uno schermo di auto-difesa dagli eccessi dello pseudo-marxismo: il senso del dovere, eredità della cultura borghese (influenzata, chissà, dall’idea evangelica secondo cui tutti riceviamo in dono un talento che è immorale sprecare). Sennonché i nostri padri erano animati da uno spirito calvinista – Freud direbbe che avevano un super-io forte, ben delineato: “il mio lavoro è la mia identità; in fabbrica, in ufficio, a scuola, devo dare il meglio di me. E, se necessario, mi sacrifico”. Sono orgoglioso di ciò che faccio, di ciò che produco, perché lavorando do il mio contributo alla società. Il dovere anzitutto. Non era autoritarismo. Era un atteggiamento mentalmente sano e moralmente giusto. Poi siamo arrivati noi, nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, saturi di una cultura incentrata sui diritti e sulla gratificazione immediata, e cosa abbiamo trasmesso ai nostri figli? Fatto sta che oggi il senso del dovere si è affievolito. Oggi un lavoratore può rispettare il proprio contratto di lavoro formalmente, facendo il minimo indispensabile. È giusto questo? I sindacalisti onesti lo sanno. Gli imprenditori lo sanno da un bel pezzo. Il diritto al lavoro, per noi socialisti, è sacrosanto: il precariato è una piaga dolorosa. Ma cosa succede quando un precario, un pariah, viene ”stabilizzato”, con un contratto a tempo indeterminato? Spesso egli si sente un bramino quasi intoccabile; i sindacati, infatti, sollevano perplessità sulle valutazioni e sulla meritocrazia – i lavoratori vanno difesi, sempre e comunque.

Compagni, occorre una rivoluzione politico-culturale: vent’anni fa proponemmo lo slogan “meriti e bisogni”. Oggi dovremmo dire: “per ogni diritto c’è un dovere”. Questo vale per tutti, indistintamente.

Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

One thought on “Diritti e doveri

  1. Caro Edoardo, non hai tutti i torti a mettere sul piatto della bilancia anche i doveri. Il fatto – per esempio – che i dipendenti statali siano illicenziabili, a prescindere dal servizio che svolgono per la comunita’ che li paga, non e’ tollerabile. Ma, hai omesso di ricordare un fatto enorme. Nella societa’ dei nostri padri (che chiamerei social-capitalista), il top manager di una azienda guadagnava al massimo otto volte quello che guadagnava il fattorino (per dire l’ultimo dei dipendenti). Nella societa’ di oggi (che chiamerei liberal-capitalista), il top manager della grande azienda pubblica o privata guadagna fino a 500 volte quello che guadagna l’operaio (mezzo milione di euro al mese contro i 1000 o 1500 euro che vanno in tasca al salariato). Allora, con che faccia il manager o il proprietario puo’ chiedere sacrifici al dipendente? Con che faccia puo’ ridurgli la pausa da 15 a 10 minuti in nome del “senso del dovere”? Con che faccia puo’ dirgli “siamo sulla stessa barca”? In realta’, uno e’ sullo yacht e l’altro sulla barca a remi. I dipendenti dovrebbero forse sputare sangue per consentire ai capitalisti di accumulare ulteriore denaro e beni immobili? L’economia si e’ ingolfata anche per questo. I patrimoni accumulati vengono spesso portati in Svizzera o in altri paradisi fiscali, e percio’ sottratti all’economia. Non e’ una questione solo morale. E’ una questione tecnica: se un capitalista accumula tanto che non sa nemmeno cosa possiede e non puo’ utilizzarlo, sottrae linfa vitale all’economia nazionale. Giusto allora parlare di doveri, ma parliamo anche dei doveri dei banchieri e dei capitalisti nei confronti della loro comunita’. Se ancora credono di appartenere ad una comunita’ nazionale e non si sentono piuttosto apolidi. Altrimenti il monito al fattorino a correre piu’ forte, per consegnare prima il pacco, diventa pura retorica ad uso e consumo di chi il senso del dovere comunitario non sa nemmeno cos’e’.

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