Caro Giuseppe,
permettimi di dissentire da quanto scritto nel tuo penultimo post. Il Financial Times è certamente un foglio autorevolissimo ma francamente credo abbia torno nel suonare le campane a morto per il capitalismo. Non credo che il capitalismo sia morto e in tutta franchezza spero, con Giorgio Ruffolo, che abbia i secoli contati. In caso contrario, sarebbe davvero una tragedia: dovremmo inventarci un nuovo modo altrettanto efficace per la produzione delle immense ricchezze create.
Giustamente tu sottolinei la centralità dell’industria. Ebbene il settore manifatturiero continua ad essere il cuore pulsante del nostro sistema economico nonostante siano stati scritti fiumi d’inchiostro sull’avvento della nuova era dei servizi. Certo questi sono aumentati come numero e sofisticazione, ma una gran parte del terziario resta di fatto legata agli oggetti prodotti dal manifatturiero: le assicurazione assicurano cose, i designer disegnano oggetti e i pubblicitari promuovono prodotti. Basti dare un’occhiata alle réclame televisive, in massima parte dedicate a cose. Anzi c’è di più: abbondano in maniera impressionante le promozioni di automobili. Non so se Marx definirebbe il nostro un sistema capitalista, ma credo che Henry Ford sarebbe felicissimo di tutto ciò. Al di là della retorica sulla new economy, siamo immersi nel manifatturiero. A riprova di ciò si veda la classifica Fortune 500 sulle più grandi e ricche multinazionali del pianeta e si noterà come la top ten sia dominata dal petrolio, dalle auto e dalla distribuzione di prodotti: old economy pura.
Ciò che è avvenuto è che la catena di montaggio, che tanta pena dava a Charlie Chaplin in Tempi moderni, è esplosa disseminando così la fabbrica fordista (dove entravano le materie prime ed usciva il modello-T) a livello planetario. La globalizzazione dell’economia non è altro che la frammentazione della produzione a livello globale. Lo spezzettamento della catena di montaggio a livello planetario: il quartier generale, faccio un esempio, può rimanere negli Usa e così la ricerca scientifica, il design può essere dato in outsourcing ad una impresa italiana, il marketing ad una olandese e le fasi labour-intensive emigrano in Cina, dove la classe operaia è tutt’altro che marginale. D’altro canto non si spiegherebbe il boom cinese se il manifatturiero non fosse ancora al centro del sistema capitalista. Non a caso il Financial Times definì la Cina il più grande opificio a cielo aperto del mondo. Continuiamo ad essere inondati di cose ed il Made in China ne è un esempio.
Ciò non toglie che il mondo della finanza abbia creato delle mostruosità. Mostruosità, per inciso, che negli anni del capitalismo controllato (su per giù dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Ottanta) non c’erano affatto. E’ quando la politica si è autoimposta un ruolo ancillare nei confronti del mercato che la febbre è arrivata. C’è certamente qualcosa che non va, il capitalismo è ammalato. Ma la febbre non si cura ammazzando il malato. Bastano delle riforme, così come già fatto in passato.
Anche sulla Cina, mi dispiace, ma dissento. E’ vero, a prima vista c’è da rimanere abbagliati dai successi cinesi. Eppure se si scava più a fondo si trovano dei limiti allo sviluppo, dei nodi, che il Partito comunista cinese non è in grado di sciogliere. Delle strozzature che il Paese può certamente superare, ma il Partito comunista cinese no.
Per spiegare questo punto è utile fare un saldo indietro e ritornare allo shock culturale che la corte del celeste impero subì a seguito dell’impatto con l’Occidente. L’Imperatore Qianlong aveva respinto con fastidio le richieste di Giorgio III: l’Impero di Mezzo, la più alta e raffinata espressione dell’umanità (almeno così si percepiva la Cina) non aveva nulla da imparare dall’Occidente. Tuttavia dopo poco più di cinquant’anni il Paese si ritrovava sconfitto militarmente, umiliato moralmente e smembrato territorialmente dai barbari d’oltreoceano. Con le prima Guerra dell’Oppio aveva inizio quel secolo di umiliazioni, il cui ricordo continua a rappresentare un memento anche per l’attuale leadership.
Come era potuto accadere e come reagire? Come fare per riportare indietro le lancette della storia e far ritornare ad essere la Cina una grande potenza? Furono questi gli interrogativi che assalirono tutta l’amministrazione imperale. Perchè l’operazione avesse successo bisognava in primo luogo individuare le fonti della potenza occidentale. Le elucubrazioni e i tentativi furono molti. Ma il tentativo più interessante e più duraturo è senza dubbio quello dell’Autorafforzamento, per il quale il segreto della potenza europea era da individuarsi nelle sue tecnologie.
Ecco allora un piano d’azione. L’Impero doveva dotarsi delle tecnologie occidentali per poter reagire e rigettare in mare gli invasori. Ed ecco lo slogan “il sapere tradizionale come fondamento, il sapere occidentale come strumento”. Si trattava, in altre parole, di innestare all’interno dell’organismo del confucianesimo cinese questi pezzi di Occidente per poter combattere l’Occidente. Fu così che per quasi quarant’anni si importarono strumenti occidentali e i giovani furono mandati all’estero ad apprendere le tecniche degli europei. Il risultato? L’operazione riuscì perfettamente (o quasi1) ma il paziente non sopravvisse all’intervento: l’Impero crolla e nel 1912 nasce la repubblica, plasmata sui modelli occidentali, di Sun Yat-sen. Come è potuto accadere? Per spiegarlo bisogna ricorrere a Popper, a Toynbee e a Pellicani.
Semplifico il più possibile. Quando una società chiusa, come la Cina dell’imperatore Qianlong, viene a contatto con una società aperta ha di fronte a sé due sole alternative: può tentare di chiudersi ermeticamente e cercare di sopravvivere in nome della sua Tradizione sacra ed immutabile, oppure può decidere di aprirsi completamente e diventare occidentale. Terzium non datur. Eppur l’amore per le proprie radici e l’attaccamento alla fede dei padri producono il tentativo di un terza via: e cioè l’innesto di quei pezzi di Occidente che paiono più innocui o più utili all’interno della struttura di una società tradizionale. Nella speranza che tutto il corpo sociale non ne risulti infettato.
Eppure i pezzi innestati non sono strumenti neutri, sono anzi impregnati della visione del mondo occidentale e si trascinano dietro altri pezzi di Occidente. Infatti, “se da una certa cultura si sfalda una scheggia e la si introduce in un corpo sociale estraneo, questa scheggia isolata tenderà a trascinarsi appresso, nel corpo estraneo in cui si è insediata, gli altri elementi costitutivi del sistema sociale dove la scheggia è di casa e da cui è stata staccata innaturalmente. La struttura infranta tende a ricostruirsi in un ambiente straniero in cui si è fatta strada una delle sue componenti”2. Inoltre, una volta messo in moto, il processo di acculturazione è inarrestabile e i tentativi degli aggrediti di frenarlo non avranno altro risultato che quello di rendere più straziante la cosa3. Tale processo infatti si fermerà solo quando tutti gli elementi essenziali della società radioattiva siano stati impiantati nel corpo sociale della società aggredita, perché solo così la società occidentale può funzionare perfettamente4. Toynbee definisce tale processo come la legge di “una cosa tira l’altra”. Ecco dunque perchè alla modernizzazione economica e tecnologica seguì come un’ombra la modernizzazione culturale ed istituzionale5
Mao non fece altro che porre fine a questo esperimento, richiudere le porte della Cina al mondo e tentare una restaurazione della società chiusa dell’Impero e finanche il culto quasi divino dell’imperatore: il maoismo.
Se, utilizzando le schema sin qui brevemente tratteggiato, si leggono le parole con le quali Deng Xiaoping diede avvio e sostenne il processo di riforme e di apertura, appare evidente come il piccolo timoniere abbia dato avvio allo stesso esperimento dell’Autorafforzamento. Questa volta si è tentato di innestare il mercato (attraverso gli investimenti diretti esteri) all’interno della società tradizionale rivisitata dal PCC, nella speranza che, lavorando come un servo sciocco, potesse arricchire il Paese e rafforzare il Partito. Ma così facendo Deng ha innescato di nuovo il processo di trasfusione di “una cosa tira l’altra”.
Questo significa che alla modernizzazione economica deve seguire una modernizzazione politica, in senso occidentale si badi bene, altrimenti la macchina cinese non potrà che incepparsi. Questo dunque significa che Deng involontariamente ha innescato un processo al quale il Partito comunista cinese non può sopravvivere. Ora l’attrito tra i pezzi del vecchio ordine presenti in Cina e i pezzi di Occidente che tentano di innestarsi nel Paese spiega le difficoltà attuali.
Difficoltà economiche. Solo due esempi: il sistema finanziario è dominato dalla banche di Stato che aprono linee di credito quasi esclusivamente alle imprese di Stato. Risultato? Il sistema delle imprese private (piccole e medie essenzialmente) rischia il collasso come è accaduto a Wenzhou. Il sistema cinese, inoltre, non riesce a produrre innovazione tecnologica ed è ancora un nano nella ricerca scientifica. Qualche mese fa il Global Times (che fa parte del gruppo del Quotidiano del popolo) si è accorto che i migliori diplomati preferiscono andare all’estero più che scegliere le università cinesi. Sugli organi di stampa ufficiali del Partito si è iniziato a discutere. Alla fine la risposta che correttamente hanno individuato è che il sistema universitario cinese manca di spirito critico. Uno spirito critico che è l’essenza della tradizione dell’anti-tradizione occidentale (il tentativo continuo di superare le conquiste dei padri), ma che è assolutamente incompatibile con una società chiusa.
Difficoltà sociali: le rivolte continue, che ormai si contano a centinaia di migliaia, sono il prodotto dello strapotere dei ras locali del Partito per l’esproprio selvaggio di terreni. Tralascio la questione della forte polarizzazione della ricchezza o degli scioperi per un miglioramento delle condizioni di lavoro e dei salari o le politiche di controllo delle nascite che hanno completamente alterato la struttura demografica. C’è un ultimo punto che va considerato: il Paese non ha più modelli di riferimento. Mao è morto, Confucio non pare in buona salute e i ricchi si suicidano o emigrano. Cosa che ha un impatto sociale non indifferente se si pensa che Deng lanciò la nuova era con il grido “la ricchezza è gloria”. Oggi la Cina è un Paese che si guarda allo specchio e non si riconosce, dilaniato tra tendenze “naturali” verso la modernizzazione occidentale e tentativi da parte del Partito di imporre modelli tradizionali (nelle scuole ritorna ad esempio la calligrafica, arte degli Imperatori e dei mandarini. Pare anche anche Mao fosse un abile calligrafo).
Difficoltà politiche: la leadership del partito si è resa conto che lo scollamento tra il Palazzo e il Paese reale è diventato ormai insostenibile. Di qui la necessità di aprire il cantiere delle riforme politiche: la democrazia con caratteristiche cinesi. Da una parte il rifiuto totale del modello occidentale e dall’altra la sperimentazione di una serie di surrogati di cui è lecito dubitare sia l’efficacia che l’efficenza.
Tentare di bloccare il processo di trasfusione innescato un trentennio fa significa solo rendere sempre più schizofrenico il Paese. A tale proposito un solo esempio: mentre Hu Jintao chiama a raccolta per contrastare le pericolose influenze della cultura occidentale che rischiano di spaccare la Cina, dall’altra il governo dà avvio ad un programma quinquennale per attrarre dall’estero super esperti in campo economico, scientifico e tecnologico.
Il Paese dunque è attraversato da due pulsioni contrastanti, che costituiscono l’essenza di due macro fazioni: una che punta dritto alla società chiusa, un’altra che tenta un transizione verso la società aperta
Come andrà a finire? E’ difficile dirlo. Se avesse la meglio la fazione degli anti-occidentali e se dovessero nuovamente chiudersi le porte della Cina al mondo, il Paese si avvierebbe verso un progressivo declino economico (già oggi la crescita cala in maniera preoccupante) con danni considerevoli per tutta l’economia globale. Se al contrario il processo di riforme economiche (ormai fermo da un decennio) dovesse ripartire e si desse avvio alla modernizzazione politica (il che tra le altre cose significa la scomparsa della monocrazia del PCC), il Paese potrebbe abbastanza agevolmente continuare sulla via dello sviluppo: il che sarebbe un’ottima cosa per un miliardo e trecento milioni di cinesi, ma anche per tutta l’economia mondiale. Se invece le due fazioni dovessero trincerarsi ed iniziare a guerreggiare tra loro si aprirebbe una fase che potrebbe essere terribile per i cinesi ed per il mondo intero.
Questo significa che la Cina sta entrando a passo di carica in una fase delicatissima della propria storia e il momento del confronto tra Ulisse e Confucio si sta avvicinando a passo di carica. Perchè tale processo di transizione ha subito una così forte accelerazione? Il partito ha deciso che per poter sopravvivere è necessario che si riformi, deve aprirsi, condannare gli abusi (si pensi al caso della cittadina di Wukan). Il punto non è tanto che implicitamente nel momento in cui si sostiene la necessità di riformare il sistema, come fa Wen Jiabao, si riconosce che c’è del marcio. C’è qualcosa di più profondo che Tocqueville aveva intuito. Nell’antico regime, le vessazioni, le ingiustizie, i soprusi del potere, vengono accettati dai cittadini in quanto rientrano nell’ordine naturale delle cose, vengono vissuti come fatti naturali e normali. Ma nel momento in cui le stesse autorità definiscono tali atti come ingiustizie, si verifica una vera e propria rivoluzione copernicana delle percezioni delle persone :“adesso si può dire a voce alta quello che prima poteva essere soltanto pensato. Le lingue degli oppressi sono sciolte, le teste alzate. Capiscono di non essere soli, che altri – alcuni dei quali al potere – la pensavano come loro. Le loro speranze vengono incoraggiate, il cambiamento è possibile, s’intravede la possibilità di un nuovo mondo. Diventano impazienti. I cambiamenti devono arrivare subito, senza indugi. Qualcuno chiede l’impossibile, qualcun altro si rivolta con una rabbia e una furia inaspettate contro il regime che aveva appena intrapreso il processo di riforma”. Così “una piccola crepa nella diga fa crollare la struttura ancora in fase di riparazione”. Pertanto il momento peggiore per il governo di una società chiusa “è in genere quello in cui esso comincia a riformarsi. Il male che si tollerava pazientemente come inevitabile diventa insopportabile dal momento in cui si concepisce l’idea di liberarsene”. Per inciso si noti che se Tocqueville ha ragione il ruolo di internet e delle nuove tecnologie della comunicazione si pone a valle dei tale processo: hanno l’effetto di elevare a potenza un fenomeno comunque già in atto.
In conclusione la Cina oggi nel bel mezzo di un esperimento che rischia di fallire, come già successo in passato. Non rappresenta un modello, perchè è solo uno stadio di un processo di transizione di cui ad oggi non conosciamo l’esito. Per questo credo che più che guardare ad Oriente sia necessario continuare a guardare ad Occidente.
PS. A proposito di un passaggio del post di Alfonso Siano sulle acquisizioni di quote azionarie da parte di alcune imprese cinesi nel settore delle utilities europei. Non credo che si tratti di una mossa strategica per poter ricattare o condizionare l’Occidente. Anche in questo caso tale fenomeno si spiega con le debolezze e paure cinesi. Pechino deve mettere a riparo i propri investimenti (e l’enorme massa di riserve monetarie) dall’inflazione. Inflazione che è tra gli obiettivi della FED: i due round di Quantitative Easing e un terzo potrebbe presto vedere la luce. E’ per questo che a Pechino hanno iniziato a guardare all’Europa dove l’ortodossia tedesca della BCE garantiva un approdo. Ma ora che Draghi pare smarcarsi dal controllo di Berlino ed avvicinarsi alla visione del mondo della FED, in Cina devono cambiare politica. Ecco, probabilmente, la decisione di investire in qualcosa di ancora più sicuro: le utilities. Come del resto sapevano bene anche tanti italiani che investivano i proprio risparmi nella SADE, SIP, Edison e SME, prima della nazionalizzazione che portò alla costituzione dell’Enel. Il fine è economico, non strategico.
Tuo,
Nunzio Mastrolia
La lunga polemica di Mastrolia con il mio pezzo “La Cina si avvicina” non mi ha convinto. Io ho sostenuto tre cose: 1) il capitalismo industriale analizzato da Marx non è più il settore dominante della vita economica finanziaria: mi pare un’ovvietà; 2) tra il sistema liberista fondato sul mercato e quello fondato sullo stato sembra che in Cina stia emergendo un altro “modello”: le imprese sono statali ma operano nel e secondo le leggi del mercato; 3) grazie al progresso economico, ma grazie soprattutto alla rete telematica, i focolai di democrazia si moltiplicano (fenomeno ancora marginale).
Vorrei sapere da Mastrolia che cosa è sbagliato: perchè nel suo pezzo, così denso, non l’ho colto pienamente.
Comunque che “fioriscano cento fiori”!.
Il pezzo di Mastrolia mi sembra eccessivamente “self-serving”: noi siamo più bravi, se qualcuno fa meglio di noi o è un provvisorio accidente della storia o succede solo perché (e quando) ci imita; ma se non lo fa sino in fondo, o se tenta qualche soluzione originale, finirà certamente male, perché così vogliono le leggi di natura.
Qualcuno (a proposito, era proprio il teorico della “società aperta” Karl Popper) negava al marxismo carattere scientifico in quanto ipotesi non falsificabile, tale da essere “confermata” da qualsiasi sviluppo empirico. Ecco, mi sembra che molte teorizzazioni contemporanee delle stessa “società aperta” soffrano in forma aggravata dello stesso problema.
Infine, l’idea che la repubblica di Sun Yat-sen fosse in qualche senso più “avanzata” della Cina all’epoca della morte di Mao, o che questa fosse più debole e meno influente in qualche senso, che so, della liberalissima Nuova Zelanda nella stessa epoca, mi sembrano davvero petizioni di principio.
Innanzitutto grazie per i commenti. Provo a rispondere per punti e spero di essere più chiaro e meno prolisso.
Circa i tre punti di Tamburrano.
1. Se si sostiene che l’attività finanziaria non ha come esclusivo “core business” il reperimento di fondi per l’industria, sono d’accordo. Tuttavia il nostro sistema economico continua ad essere incentrato sull’industria.
2. Le imprese di Stato cinesi operano nel mercato ma non secondo le logiche del mercato, per questo il loro ruolo di sta rivelando dannoso per l’economia del paese e per le imprese private. Non lo dico io, ma le più alte sfere del partito, in primis il premier Wen Jiabao. Anzi, le imprese di Stato rischiano di strozzare il mondo delle imprese private, da cui dipende la crescita cinese. Anche sulla stampa ufficiale del partito la questione è esplosa e viene continuamente dibattuta, da quando il fenomeno è divenuto macroscopico a causa di numerosi fallimenti di imprese: il caso di Wenzhou.
3. Il moltiplicarsi dei focolai democratici è la “naturale” conseguenza del processo di riforme innescato da Deng. E’ la quinta modernizzazione già stoppata nell’89 con i carri armati. Ho riportato una frase di Luciano Pellicano che spiega bene questo punto: “alla modernizzazione economica e tecnologica segue come un’ombra la modernizzazione istituzionale e culturale”. Il ruolo delle tecnologie è quello di potenziare e comunicare all’esterno tale fenomeno, non di crearlo. Si tratta tuttavia di un fenomeno che è totalmente incompatibile con la monocrazia del PCC. Delle due l’una: o la Cina diventa un paese democratico sul modello occidentale ed il partito accetta di sciogliersi in un ampio pluralismo politico o tali istanze devono essere soffocate se il Partito comunista vuole rimanere al suo posto.
Per questo ritengo che la Cina non sia un “modello”, ma una fase instabile e pericolosa di un processo di transizione in continuo divenire.
Riguardo ai commenti di Stefano Vaj, che ringrazio:
1. Non mi pare di aver scritto una apologia del nostro sistema. Ho anzi sostenuto che il nostro modello è ammalato e necessità di riforme. Riforme, aggiungo, che curino la questione sociale che si è prodotta negli ultimi trent’anni. Ho sostento che l’economia di mercato non può alla lunga funzionare senza il pluralismo politico, lo stato di diritto e la democrazia. A me pare che questo sia il cuore dell’ipotesi (costruita in modo da essere falsificabile) di Popper. E mi pare che la storia di Taiwan, del Giappone e della Corea del Sud vadano in questo senso.
2. Non mi pare di aver sostenuto che la repubblica di Sun Yat-sen fosse più o meno “avanzata” o influente della Repubblica Popolare di Mao. Francamente non so se sia così oppure no, bisognerebbe studiarci un pò su. Ho però scritto che, facendo di nuovo riferimento alla frase di Pellicani su riportata, il processo di modernizzazione tecnologica ed economica, avviato dal movimento dell’Autorafforzamento sul finire dell’800, era incompatibile con la struttura istituzionale e culturale dell’Impero. Pertanto quel processo ha avuto come naturale sbocco la Repubblica del 1912.
Spero di essere stato chiaro e conciso e mi farebbe piacere poter ricevere vostri ulteriori commenti e critiche.
Nunzio Mastrolia
Caro Nunzio,
vedo che non ci capiamo.
Ma per me de hoc satis