Oltre il mantra della flessibilità

Con discreto anticipo rispetto al corrente dibattito sulla flessibilità del lavoro, Joseph Schumpeter spiegò così il dinamismo delle economie di mercato: «La “distruzione creatrice” costituisce il dato fondamentale del capitalismo; è in questo che consiste, in ultima analisi, il capitalismo, ed ogni impresa capitalista deve, volente o nolente, adattarvisi». La celebre intuizione dell’economista austriaco sulla “distruzione creatrice”, tratta dal classico “Capitalismo, Socialismo e Democrazia”, si riferisce soprattutto alle innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività del lavoro e sospingono la crescita. Il capitalismo, pertanto, impone all’economia una “rivoluzione permanente” che distrugge le vecchie strutture per adottarne di nuove; «l’adattarvisi» delle imprese consiste proprio nella capacità di trasferire i fattori di produzione (lavoratori, capitali, conoscenze, risorse) dai settori in perdita a quelli più redditizi nel minor tempo possibile. La flessibilità (del mercato del lavoro o del mercato dei capitali) è l’indice di detta mobilità.

Da qui, gran parte delle teorie economiche neoclassiche hanno derivato l’argomento usato (e abusato) a sostegno di una piena mobilità dei fattori di produzione: messa in condizione di operare liberamente, la mano invisibile provvederebbe a un’allocazione più efficiente – la migliore! – di quei fattori, massimizzando la crescita economica. Sul piano teorico, senza scomodare Keynes, è lo stesso Schumpeter a contraddire l’ottimismo dei liberisti sulla “distruzione creatrice”; essa si sarebbe rivelata, sul lungo periodo, un elemento altamente destabilizzante per la società. Le spinte monopolistiche dei capitalisti, secondo Schumpeter, avrebbero innescato un conflitto irreversibile costringendo l’intervento di una élite burocratica e intellettuale per una gestione più democratica e sostenibile delle risorse economiche, spianando la strada all’avvento (parlamentare e non rivoluzionario) del socialismo.

Abbassando il livello del discorso per tornare a occuparci del cortile di casa nostra, il governo tecnico di Monti (elitario sì, ma ben lungi dall’essere socialista) si sta occupando della riforma del mercato del lavoro per rilanciare la crescita – obiettivo principale della cosiddetta “Fase 2”. L’attenzione è tutta rivolta alla flessibilità del lavoro, invocata da più parti come un mantra, e la discussione sta scivolando come al solito sul totem dell’art. 18; il tema del dualismo del mercato del lavoro italiano, scisso fra precari e garantiti, è un problema reale. Tuttavia, passando dalla teoria ai fatti, è proprio vero che i mali del sistema produttivo del paese si riducano alla diatriba flessibilità/rigidità?

1. Il fattore primario della crescita economica è la produttività del lavoro: proprio Schumpeter ci ricorda che le sorti del capitalismo dipendono, in prima istanza, dalle innovazioni tecnologiche che consentono di accrescere l’output a parità di input. In Italia, nell’arco degli ultimi dieci anni, l’aumento praticamente nullo della produttività del lavoro è imputabile soprattutto alla scarsa innovazione tecnologica – investiamo in Ricerca e Sviluppo una quota del PIL pari all’1% contro il 2% della Francia, il 2,5% della Germania e il 4% della Svezia (dati OCSE). La flessibilità del lavoro, se non costituisce un rimedio a questo problema, può addirittura aggravarlo poiché mal si concilia con i princìpi della formazione continua e della specializzazione del capitale umano che dovrebbero concorrere alla produttività di un’impresa.

 2. La competitività del sistema produttivo, a maggior ragione in un’economia sempre più internazionalizzata, varia in funzione delle economie di scala: le aziende italiane, ahinoi, sono affette da nanismo. La media di addetti per impresa è pari a 4 contro i 12 della Germania, i 10 del Regno Unito e i 6 della Francia, mentre le grandi imprese con oltre 500 dipendenti ammontano alla metà della media europea (dati EUROSTAT). La regolamentazione del mercato del lavoro può aver agito da freno per l’espansione delle piccole imprese (l’art. 18 non si applica al di sotto dei 15 dipendenti), ma è evidente che la carenza strutturale di “campioni nazionali” di cui soffre l’Italia debba avere radici diverse e molto più antiche.

3. La flessibilità di un’impresa si riferisce alla variazione dei costi totali in presenza di una variazione della quantità prodotta: in ragione della “distruzione creatrice” e dell’internazionalizzazione dell’economia, le imprese necessitano di una certa flessibilità per mantenersi competitive. In altre parole, se obbligate a ridurre la produzione per fronteggiare una crisi, devono poter intervenire sui costi variabili (il lavoro in primis) per abbassare i costi economici totali; dei costi sociali equivalenti, scontati dai lavoratori in termini di reddito e diritti, si fa carico lo Stato attraverso gli ammortizzatori (integrazioni e sussidi). I problemi insorgono quando la flessibilità, invece di servire da terapia alle crisi di settore o alle congiunture sfavorevoli, diventa un modo di abbassare surrettiziamente i costi strutturali di un’impresa: è quel che è accaduto in Italia, dove molte aziende hanno compensato il calo della produttività tagliando i costi per competere al ribasso. In un mercato globale dove i paesi emergenti possono garantire prezzi stracciati, è una strategia miope e controproducente che esula dai problemi del mercato del lavoro, anzi si ripercuote su di essi, perché spinge i lavoratori ad interpretare la disoccupazione temporanea come precarietà esistenziale, irrigidendo la posizione dei sindacati sulla flessibilità.

A conti fatti, i problemi del sistema produttivo italiano sono molti e molto più complessi delle disfunzioni del mercato del lavoro; non che l’aspetto normativo non debba essere affrontato, ma impiccarsi all’art. 18 è un modo di nascondere la polvere sotto al tappeto. Esiste un problema di competitività legato agli aspetti propriamente economici del modo di fare impresa in Italia, poco lungimirante e troppo orientato al profitto di breve periodo. Più di un cambiamento normativo, servirebbe un cambiamento economico sostenuto da una strategia industriale – da una politica industriale – che sappia rivalutare lavoro e salari puntando sull’innovazione e la qualità. Un cambiamento del genere, però, non è nella disponibilità di un governo tecnico non solo a causa dei limiti temporali del suo mandato, ma perché necessita di una visione complessiva della società che i tecnici non sono autorizzati ad esprimere quando sono al potere. Un cambiamento del genere, insomma, è un cambiamento politico di cui solo la politica potrebbe assumersi la responsabilità di fronte ai cittadini; ma in tempi come questi, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…

Mario Trifuoggi

fondazione nenni

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