Ancora sull’art.18

Ritorniamo sull’art.18 che è al centro di un dibattito che dura da molti anni. Il nocciolo della questione è il potere del datore di lavoro di licenziare il dipendente in imprese con più di 15 lavoratori. La norma stabilisce che se il licenziamento non avviene per giusta causa il dipendente può chiedere al giudice una sentenza di riassunzione.

Ragionando in termini di fatto, l’abolizione dell’articolo con le cautele previste ad esempio nella proposta di Pietro Ichino, non dovrebbe causare un grave danno. A tanti anni di applicazione dello Statuto dei lavoratori disponiamo dei dati dell’esperienza i quali dicono che sono poche le cause intentate dai lavoratori licenziati e che, trattandosi della giustizia italiana, esse durano un’eternità.

Dunque l’abolizione dell’articolo non farebbe grande danno. Il Prof. Ichino che si batte per l’abolizione ha fatto una proposta di legge che circonda di garanzie il lavoratore licenziato.

Ma vi sono due questioni di altro genere. La prima è: non è chiaro per quale ragione l’abolizione dell’articolo dovrebbe incentivare il processo di nuove assunzioni.

L’altra è la questione centrale. L’art. 18 ha fatto cadere un antichissimo, primordiale potere del padrone: quello di “cacciare” il dipendente con un gesto: ad nutum dicevano i romani. Esso ha dato al lavoratore la dignità di controparte: una rivoluzione civile e giuridica. Fosse anche solo simbolica essa sarebbe importantissima. Ecco la scelta tra questione pratica e questione di principio.

Giuseppe Tamburrano

fondazione nenni

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