Mai come in questo periodo mi sono trovato in consonanza, su molte questioni, con i discorsi dei leader della cosiddetta “sinistra radicale”. Difficile dare torto a Paolo Ferrero quando critica la reintroduzione dell’ICI sulla prima casa, il non adeguamento delle pensioni all’inflazione, l’aumento dell’età pensionabile, lo spreco di denaro pubblico per arricchire i grandi potentati, i favori alle banche, i privilegi del Vaticano, la non tassazione dei grandi patrimoni… in breve, l’assoluta mancanza di equità della manovra del governo tecnico. Del resto, il segretario del PSI Nencini non dice cose molto diverse. Monti è riuscito nel miracolo di mettere d’accordo non solo tutti i sindacati, ma anche le frammentate forze della sinistra, inclusa una buona fetta dell’elettorato PD. Basta infatti leggere quello che scrivono i militanti di questo partito nei forum della rete, per comprendere che non stanno affatto seguendo la leadership. Il PD, sebbene a guida Bersani, riesce veltronianamente a stare con il governo Monti “ma anche” con i sindacati che scioperano contro il governo Monti. Il suo elettorato è sempre più disorientato. L’esercizio di equilibrismo politico continua a sfidare ogni forza gravitazionale, ma le reazioni rabbiose di molti cittadini fanno presagire che all’appuntamento elettorale, a questa forza politica, potrebbe venire a mancare il terreno sotto i piedi. Si registrano dunque convergenze a sinistra, ma… resta appunto un “ma”. Nonostante la convergenza, anche in questa fase di lotta comune, rimane evidente una differenza essenziale tra socialisti e comunisti (intesi nel senso più ampio e filosofico del termine e non di appartenenza a specifici partiti). La differenza è che il socialismo è un partito “pragmatico” del lavoro, mentre il comunismo è un partito “ideologico” del lavoro. In altre parole, i socialisti partono dal risultato finale atteso, per giustificare una decisione. I comunisti partono dalla linea ideologica per prendere una decisione, a prescindere dal risultato finale. Veniamo agli esempi pratici. Nel documento del 10 dicembre 2011, in cui il Consiglio politico della Federazione della Sinistra mette nero su bianco la propria opposizione al governo Monti, si trovano molti punti condivisibili, ma ancora una volta si mettono nello stesso calderone le privatizzazioni e le liberalizzazioni, come se fossero la stessa cosa, e si bocciano le seconde insieme alle prime senza uno straccio di argomento. Senza cioè spiegare in che senso sarebbero beneficiati lavoratori, precari, disoccupati e pensionati (sul piano pragmatico!) dal venire meno delle protezioni corporative a categorie come notai, avvocati, tassisti, farmacisti, ecc. Può un operaio permettersi oggi di prendere un taxi se perde l’autobus? No. Può un laureato in farmacia esercitare la professione se non è figlio di farmacisti? No. E perché allora i comunisti si ostinano a sostenere politiche che nella prassi rendono difficile la vita delle fasce deboli?
Un tempo questa linea aveva una logica. Migliorare sul piano pragmatico, attraverso riforme, le condizioni di vita dei lavoratori significava “imborghesirli” – dunque perdere pezzi al partito rivoluzionario (si pensi a Herbert Marcuse che considerava ormai perduti gli operai e guardava al “sostrato dei reietti e degli stranieri” come “agenti di trasformazione storica”). Di qui l’ambivalenza del comunismo di lotta e di governo, che doveva aiutare i lavoratori ad elevarsi socialmente, ma non troppo. Mi chiedo che senso abbia oggi tutto questo armamentario ideologico, visto che non si fa più la rivoluzione dando l’assalto al Palazzo d’Inverno. Nei movimenti di protesta odierni (come Occupy Wall Street o le rivolte arabe) in piazza ci sono anche le classi medie, i commercianti, i lavoratori autonomi, insieme al proletariato e al sostrato dei reietti. Tale è il divario tra l’1% dei ricchi e il restante 99% che fare i settari oggi significa solo fare un favore all’oligarchia.
L’avversione alle liberalizzazioni – che oggi darebbero un po’ di respiro al 99% – si spiega solo come un riflesso condizionato: i comunisti “devono” essere contro l’iniziativa privata, quand’anche fosse quella dell’aspirante farmacista figlio di un dio minore, semplicemente per restare coerenti con il bagaglio ideologico che si portano appresso. Così come i liberisti partono dal dogma che “privato è buono e pubblico è cattivo”, i comunisti partono dal dogma che “pubblico è buono e privato è cattivo”. Il socialismo ha rotto con questa gabbia dogmatica, mettendo pragmaticamente il benessere al primo posto. Basta infatti passare dalle teorie alle azioni, per vedere gli effetti benefici delle liberalizzazioni (al contrario di quello che accade con le privatizzazioni, che sono cosa ben diversa). Per fare solo un esempio , le linee aeree low cost permettono anche ai proletari di volare, di viaggiare. Dunque, permettono loro pure di partecipare a manifestazioni in varie parti del mondo, dando un respiro globale alla protesta. Poiché i comunisti sono contro l’iniziativa privata, preferirebbero forse una compagnia di bandiera unica – con prezzi dieci volte superiori per pagare i boiardi di Stato e dunque nella sostanza accessibile ai soli benestanti – purché pubblica? Sembra quasi che l’importante non sia il risultato finale, ma piantare la bandierina. Sembra che non conti “fare la cosa giusta”, ma “dire la cosa giusta” (in linea con l’ideologia). Credo che le tante sinistre radicali inchiodate allo zero virgola inizieranno a unirsi e fare massa quando capiranno che è fondamentale mettere l’obiettivo concreto del benessere davanti alla formula astratta. Non dimentichiamo che è stato Leon Trotsky ad avvertire che è proprio nell’economia dei monopoli, pubblici o privati, che si annida l’oppressione. Queste le sue parole: «In un Paese in cui lo Stato è il solo datore di lavoro, opporsi significa morire di fame. Il vecchio principio “chi non lavora non mangia” è sostituito da quest’altro: “chi non si sottomette non mangia”». Liberalizzare le professioni non significa dunque spegnere la protesta, ma creare le condizioni per la protesta. Liberalizzare le professioni non significa semplicemente allargare il perimetro della borghesia, ma liberare le nuove generazioni dalle mafie e dalle clientele.
Riccardo Campa
Bell’articolo, ma…
Forse per deformazione professionale, resto sensibile all’argomento che alcune “liberalizzazioni” non rappresentano il cadere di barriere all’accesso che tengano l’offerta di alcuni servizi artificialmente bassa, così da consentire margini oligopolistici ai membri della casta interessata, ma al contrario lo smantellamento e il definitivo asservimento a strutture capitalistiche medio-grandi di categorie già pletoriche e in crisi di sopravvivenza. Con conseguente proletarizzazione dei suoi membri.
Il che, se è un bene, può esserlo solo nella criticata prospettiva marcusiana di trovare nuovi manovali per la rivoluzione, ma difficilmente dal punto di vista di un cittadino che cessa di avere accesso, ad esempio, ad un’assistenza legale indipendente e largamente diversificata in grado di assumere anche incarichi impopolari, o in difesa di interessi subalterni.
Ribaltando la questione: si può non essere ideologicamente a favore della iniziativa privata, ma riconoscere pragmaticamente che o il servizio delle auto pubbliche viene improbabilmente nazionalizzato, o la limitazione del numero dei taxi può essere indispensabile perché esistano margini sufficienti per rendere economica la relativa attività, e così consentire l’esistenza tanto per cominciare del servizio.
Capisco l’argomentazione di Stefano, ma quello che sto sostenedo e’ appunto questo: la liberalizzazione va nella direzione del livellamento delle classi. E non e’ questo che vogliono i compagni comunisti? Punto secondo: se c’e’ un servizio e da questo e’ esclusa una gran parte della popolazione, a quest’ultima potrebbe interessare ben poco la presenza del servizio (e mi pare che la sinistra radicale intenda rappresentare proprio questa parte della popolazione). Punto terzo: siamo sicuri che le tariffe siano ora ottimali? Solo per fare un esempio, ci sono tassisti che hanno la licenza, subappaltano il servizio (ovvero hanno peones che fanno girare l’auto per conto loro) e dividono l’incasso. In pratica e’ una sorta di mezzadria, dove uno guadagna senza lavorare, grazie ad un privilegio “feudale”. Se questo accade, forse e’ perche’ le tariffe sono troppo alte. Punto quarto: se dovesse mancare il servizio a causa dell’eccessiva concorrenza, esso puo’ essere semplicemente ripristinato dalla mano pubblica. Esempio: se tutte le farmacie private dovessero chiudere perche’ guadagnano troppo poco (ipotesi che comunque mi pare fantascientifica, giacche’ la chiusura di alcune farmacie rimetterebbe di per se la situazione in equilibrio), si possono sempre aprire piu’ farmacie comunali. Non entro nel dettaglio dell’avvocatura (che mi pare sia il tuo campo), ma anche qui mi pare difficilmente negabile che le attuali tariffe siano fuori dalla portata di lavoratori e pensionati. Il che produce una giustizia classista. In ogni caso, se ci fossero controlli seri sul patrimonio, potremmo sapere se hanno ragione le varie corporazioni quando dicono che non se la passano al meglio, o se invece hanno ragione i consumatori.