L’altro 11 settembre

 Quest’anno ricorre il decennale del sanguinario attentato terroristico alle torri gemelle. Il mondo intero rimase attonito di fronte alle immagini degli aerei che, come missili, si schiantavano contro quei grattacieli, seminando morte e distruzione nel cuore di New York. Terrificante il bilancio: quasi tremila vite stroncate; migliaia i feriti, traumatizzati per sempre. Una strage barbara, senza la benché minima giustificazione, che solo una mente perversa poteva concepire. È un dovere morale e politico ricordare quelle vittime innocenti dell’odio e del fanatismo. Ma ci sono crepe nel fronte delle commemorazioni. Noam Chomsky ricorda la brutalità di quell’attentato, ma poi menziona un “altro” 11 settembre: trent’otto anni fa – l’11 settembre del 1973 – un golpe soffocò nel sangue il sogno socialista e libertario di Salvador Allende. Un Presidente eletto e amato dal popolo cileno fu costretto a suicidarsi. Il generale Pinochet instaurò un regime fascista in piena regola con la benedizione degli USA. Quel golpe, infatti, fu finanziato e sostenuto dalla CIA. Macabra la contabilità dell’altro 11 settembre: oltre tremila i morti ammazzati tra socialisti, sindacalisti e oppositori senza colore politico. Anche chi protestava pacificamente rischiava la fucilazione. Moltissimi cileni – i tristemente famosi “desaparecidos” – scomparvero nel nulla, dopo aver subito interrogatori brutali e crudeli sevizie. Nel corso di 17 anni di dittatura, decine di migliaia di persone furono arrestate, gettate in carcere, torturate, private del loro lavoro, della loro casa, della loro dignità. Senza processo, ovviamente.

Di primo acchito questo collegamento m’è parso quasi offensivo: i caduti innocenti dell’11 settembre 2001 non c’entravano nulla con le ingiustizie perpetrate in Afghanistan, in Iraq, in Viet-Nam o in Cile. Perché chiamare in causa le vittime cilene di trent’anni prima? Non si rischia così di sminuire la bestialità dell’attentato terroristico avvenuto a New York? Qualcuno potrebbe concludere che “gli americani, in fondo, se la sono voluta”. Rievocando l’Ich bin ein Berliner! di Kennedy, oggi mi sento di dover dire “I am a New Yorker!”

Chomsky, il linguista più citato del XX secolo, è uno dei più raffinati intellettuali statunintensi. Spesso sono in disaccordo con le sue posizioni politiche, che sono troppo radicali. Questa volta, però, è riuscito a instillare nella mia mente il tarlo del dubbio. Gli americani sono vittime o carnefici? O entrambe le cose, a seconda del contesto? L’America non è né il Regno del Bene, né il Regno del Male. È una Nazione amica perché liberal-democratica. Ma è al tempo stesso una super-potenza che difende – talora legittimamente, talora in maniera impropria – i propri interessi economici e politici. Storicamente, gli USA hanno fatto più bene che male: sappiamo bene cosa sarebbe successo se, nel 1941, gli americani non fossero entrati in guerra, negando a Gran Bretagna e URSS anche gli aiuti materiali – aerei, cannoni e viveri – indispensabili per lo sforzo bellico: Hitler avrebbe vinto, e oggi vivremmo in un mondo infinitamente peggiore. Il problema è che, a volte, la nobilissima missione americana – universalizzare democrazia, pace e libertà – si impantana nei meandri della Realpolitik. Né, del resto, la Francia e la Gran Bretagna, anch’essi Paesi democratici, si comportarono diversamente: combattevano il nazismo in nome della civiltà liberale, ma si avvinghiavano ai loro imperi coloniali in Africa e in Asia. Aporie della politica, che è maledettamente complicata!

Come che sia, Chomsky ha toccato una corda sensibile. Nel 1973 ero bambino, ma ricordo nitidamente le immagini del golpe cileno in TV, le concitate manifestazioni di piazza in tutta Italia, il clima pesante che si respirava nelle scuole e a casa, il timore di un colpo di Stato militare anti-comunista in Italia. E, quando cominciai la mia militanza a sinistra – prima nella FGCI, poi nel PSI –, la figura di Allende mi conquistò subito. Non era un personaggio eroico in senso classico: non aveva il physique du rôle del rivoluzionario; non era un combattente gagliardo e affascinante come il Che Guevara, idolo di tutta la sinistra giovanile, non solo di quella extra-parlamentare. Allende era un leader un po’ grigio, almeno così appariva a noi giovani; un politico socialista come Nenni, Craxi o Berlinguer. Ma le circostanze di quella morte lo avevano trasformato in un martire a tutto tondo. Allende divenne l’idolo della nostra generazione, proprio come Matteotti lo era stato per quella dei nostri nonni: tutti cantavamo le canzoni di protesta degli “Inti-Illimani” – la mia preferita era “El pueblo unido, jamás será vencido”. Molta retorica, certo, ma quelli erano i tempi e noi eravamo ragazzi.

E, allora, come la mettiamo con l’altro 11 settembre? Guai a relativizzare un crimine contro l’umanità; guai a giustificare un’atrocità per via della politica estera statunitense di trent’anni fa; e guai – soprattutto – a porre sullo stesso piano democratici e repubblicani (“gli americani sono imperialisti per definizione”): fu Nixon, un leader di destra, a volere quel golpe infame. Criminalizzare un popolo è da folli. Ma è anche da idioti. Concentriamo piuttosto le nostre energie nel combattere il terrorismo e le sue cause ideologiche e materiali. E, al tempo stesso, non diamo respiro alle lobby e alle corporation – in qualunque Nazione si trovino – che vogliono un’economia di guerra anche in tempo di pace, che sostengono regimi dittatoriali, che si accaparrano le risorse altrui senza pagar dazio, che badano solo ai loro miserevoli interessi materiali, che speculano sulla distruzione di interi ecosistemi, che lucrano sulla miseria nel terzo mondo, indifferenti al destino di chi muore di fame o a causa di malattie endemiche. Questo è il modo più intelligente per commemorare (e rendere giustizia a) tutte le vittime: quelle di ground zero, e quelle cilene dell’altro 11 settembre.

Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

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