Lezioni cinesi -2-

 L’occidente gongola in una “presunzione democratica”, vive ancora nell’illusione della fine della storia, nella certezza assoluta che il nostro sistema politico ed economico sia lo stadio finale e necessario dell’evoluzione della specie umana. In Occidente, in altre parole, abbiamo dimenticato che anche il nostro mondo, parafrasando Paul Valery, è mortale. Questo significa che il passaggio dalla società aperta alla società chiusa è sempre possibile. Ed è già accaduto all’Atene di Pericle, alla Roma repubblicana, alla Firenze medievale, alla repubblica di Weimar.

Tuttavia la “presunzione democratica” occidentale impedisce all’élite politica ed economica di vedere il possibile baratro. La convinzione è che il sistema politico sia stabile e non abbia nessuna alternativa, così le tensioni dell’economia internazionale, attraverso dolorose riforme, possono essere scaricate sulle spalle dei cittadini, nella erronea convinzione che il sistema politico, nel suo complesso, non corra alcun rischio. Scrive Judt “I legislatori britannici e americani, ad esempio, quando impongono tagli all’assistenza pubblica per i poveri, menano uno strano vanto delle «scelte difficili» che sono costretti a compiere. (…) Di questi tempi proviamo fierezza quando sappiamo mostrarci duri a sufficienza da infliggere sofferenza ad altre persone. Se fosse ancora in vigore l’accezione passata del termine, quando essere duri consisteva nel sopportare il dolore invece che imporlo ad altri, forse ci penseremmo due volte prima di privilegiare tanto insensibilmente l’efficienza rispetto alla compassione”.

Diverso il caso cinese. A Pechino sanno, nonostante la tanta retorica per i novantanni del partito, che il proprio regime politico è fragile ed instabile. Può darsi che sia un retaggio della Cina imperiale: l’incubo della perdita del mandato. Fatto sta che a Pechino guardano con orrore a possibili fermenti o sommovimenti sociali. Si deve evitare la rivoluzione dei gelsomini, ma anche le esplosioni di malessere sociale di Londra o le tende di Tel Aviv. Ecco perché Pechino con così accanimento sta tentando di suturare gli strappi sociali e di assorbire le sacche di malessere, con lo strumento più efficace, lo stato sociale.

L’Occidente al contrario sta dimenticando il proprio passato, come giustamente scrive J.L. Gaddis. Siamo nel pieno dell’età dell’oblio di Judt: “non solo non siamo riusciti ad imparare granché dal passato – sarebbe stato appena degno di nota – ma siamo convinti – nelle previsioni economiche, nelle questioni politiche, nelle strategie internazionali, persino nelle priorità educative – che il passato non ha nulla di interessante da insegnarci. Il nostro, insistiamo, è un mondo nuovo; i rischi e le opportunità che ci offre non hanno precedenti”. Le conseguenze potrebbero essere drammatiche “grazie a mezzo secolo di prosperità e sicurezza, in Occidente, abbiamo dimenticato i traumi politici e sociali dell’insicurezza di massa. E, di conseguenza, non ricordiamo per quale motivo abbiamo ereditato questi stati sociali e cosa portò alla loro creazione”.

Con un’aggravante: oggi l’economia è la misura di ogni cosa. Ogni altra considerazione è ancillare o secondaria rispetto al calcolo economico di breve periodo. Così “abbiamo perso – continua Judt – la capacità di concepire una politica pubblica che trascenda un economicismo limitato. Abbiamo dimenticato come si pensa politicamente”.

Così l’unica cosa che conta è una politica economica che “oggi è in buona parte determinata da fattori non politici (banche centrali, agenzie internazionali o corporazioni transnazionali)”. Ecco allora che gli argini dello stato sociale, posti a fermare il baratro della polarizzazione sociale, al fine di evitare il ritorno della questione sociale, vengono smantellati in quanto considerati un costo eccessivo di cui si fa fatica a capire l’utilità. Ecco perchè – scrive Judt in Guasto è il mondo – “negli ultimi trent’anni abbiamo gettato al vento tutto ciò” con un “incrollabile, trentennale impegno angloamericano nello smantellamento di decenni di leggi sociali e supervisione dell’economica (che) non ha precedenti”.

Ma non finisce qui: anche la democrazia ha un costo. Ed ecco la nuova parola d’ordine: tagliare i costi della politica. Ma la potatura è un’operazione delicata. Chi ci garantisce che l’umore crescente di anti politica, non sfoci in una furia anti democratica? In fondo un solo parlamentare costa molto meno di mille. E un parlamento chiuso non costa nulla. Attenzione che a furia di tagliare non si abbatta anche l’albero.

Le conseguenze potrebbero essere disastrose per i paesi che procedono lungo questa strada, come scrive ancora Judt “o cesseranno di essere democrazie o torneranno a ospitare la politica della frustrazione e del risentimento populista”.

Non si tratta di un eccessivo pessimismo. A guardar bene prima di ogni passaggio dalla società aperta alla società chiusa – dalla Roma dei Gracchi alla Firenze dei Ciompi – c’è una questione sociale non risolta.

Se così stanno le cose, è possibile tentare una generalizzazione: le rivoluzioni economiche della Grande Trasformazione (o si potrebbe anche dire più semplicemente il mercato) generano naturalmente una questione sociale (polarizzazione sociale e occlusione o privatizzazione dei canali si ascesa sociale, di assistenza e azzeramento delle politiche di redistribuzione della ricchezza). A questo punto è compito della politica rimarginare gli strappi, ristabilire una nuova coesione sociale, curare gli aspetti negativi della Grande Trasformazione. Se ciò non avviene il denaro compra la democrazia, la lotta politica diventa rissa tra oligarchie, finché non sarà una sola fazione ad avere la meglio sulle altre, fino a giungere a quel dispotismo orientale che soffoca ogni cosa, che uccide la società civile e con essa il motore economico del mercato. Così muoiono le democrazie.

Le società chiuse, o come nel caso di Pechino, non totalmente aperte, invece, possono rafforzarsi con l’adozione di un welfare paternalistico, ma per fare ciò devono chiudersi ulteriormente.

Questo significa che Pechino farà di tutto per curare e tutelare il proprio giardino dalla concorrenza esterna e riservarlo alle imprese nazionali. Il che significa che la Cina tenderà a chiudersi in un’area regionale di scambi commerciali. Un’area dello yuan, sul modello di quella dello yen negli anni Trenta. Una prospettiva di per sé già preoccupante perché implica la formazione – nuovamente – di quelle panregioni, blocchi economici e politici, dal cui attrito e scaturita la seconda guerra mondiale.

La tendenza è già in atto, ma potrebbe aggravarsi per una semplice ragione. L’austerity europea e americana rende le imprese occidentali affamate di mercati e impone loro l’assillo delle esportazioni. Il mercato cinese ha potenzialità enormi e viste le politiche sociali di Pechino la possibilità che tali potenzialità vengano a maturazione cresce ogni giorno di più.

Dal collasso della pax britannica presero vita le panregioni di Haushofer. Oggi l’ordine post-bellico a matrice americana sta vivendo una fase di acuta debolezza: il primato del dollaro è contestato, il ritorno della pirateria è il sintomo di un indebolimento della capacità della potenza centrale di garantire la libertà delle rotte marittime e, cosa ancora più grave, la voce delle istituzioni internazionali, i cardini dell’ordine post-bellico, si fa sempre più flebile. In questo senso il silenzio del WTO è preoccupante, se non riuscirà ad impedire che la Cina chiuda il suo mercato interno con una nuova muraglia e se non riuscirà ad evitare l’assalto delle imprese occidentali alle bocche cinesi la prospettiva sarà quella di nuovi attriti che ricordano gli anni Trenta. Anzi forse ancora più lontano: una Terza Guerra dell’Oppio.

(2-fine)

Nunzio Mastrolia

 

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

4 thoughts on “Lezioni cinesi -2-

  1. Il fine della medicina è la salute delle persone: questa affermazione è ovvia.
    E qual è il fine dell’economia? Dovrebbe essere altrettanto ovvio: è il benessere della persone. E invece non è così. E nessun economista o pochi lo affermerebbero – tranne forse, paradossalmente, il padre del liberismo: Adam Smith-. In realtà nessun economista e nessun operatore economico definisce e pratica l’attività economica con questo fine, il benessere delle persone. L’aumento delle retribuzioni o dell’occupazione, può essere un risultato indiretto e quasi mai voluto dell’attività economica. Il mercato che è il meccanismo fondamentale della economia occidentale (ma si sta allargando e “contaminando” altre zone) ha come fine unico il profitto privato e non già il benessere collettivo. Ma esso, giusto perchè è un “meccanismo” e non un bene in sé, può, fondamentalmente, essere strumento nel quadro di una economia che abbia come fine, appunto, il benessere di tutti.
    Veniamo ad oggi: l’economia occidentale ha conosciuto una grave crisi che è tutt’altro che finita. Essa ha prodotto danni enormi (tranne ai ricchi che hanno saputo speculare) ed ha impoverito il mondo. Se noi ci atteniamo alla definizione data, questa eonomia va condannata e cambiata.
    Se un ospedale e i suoi medici si disinteressano della salute di esseri umani malati che possono guarire, quell’ospedale viene incriminato. E perchè non si condanna un sistema economico, il nostro, che, per fare solo un’esempio, non muove un dito per aiutare la Somalia?

  2. Carissimo Giuseppe,
    grazie per il commento. Francamente credo che le cose stiano diversamente. Ho già toccato questo punto nel post “Il dovere della politica” del 23 marzo del 2011. Compito del mercato è produrre ricchezza. Il dovere della politica è quello di perseguire il benessere collettivo. I guai sono iniziati quando si è creduto (un vero e proprio atto di fede) che il mercato potesse perseguire contemporaneamente i due obiettivi. Di qui il disastro.
    Il mercato è uno strumento utile, anzi il più utile per la creazione di ricchezze ed anche innovazioni tecnologie e forse anche progresso in senso lato. E’ per questo che non si può condannare il mercato, così come nessuno se la prenderebbe con la propria automobile se sbagliasse strada.
    La crisi che stiamo vivendo non è un caso di fallimento del mercato, ma della politica. O, per essere più precisi, di una particolare visione della politica, che è il prodotto del pensiero di Hayek.
    Come accennavo nell’articolo, storicamente esistono delle costanti impressionanti. Dopo la seconda guerra punica, per Roma si apre un periodo di straordinario sviluppo economico per pochi e di miseria per le masse. Anche in quel caso si assiste allo distruzione del ceto medio. Stessa cosa accade all’Italia del primo rinascimento (XI-XIV secolo): una rivoluzione commerciale e proto-industriale produce immense ricchezze, ma al contempo una forte polarizzazione economica e sociale.
    E’ il fallimento del riformismo dei Gracchi che conduce alla fine della repubblica ed è il massacro dei Ciompi che trasforma Firenze in una arena di lotte oligarchiche, fino alla vittoria della dittatura medicea.
    Le colpe dunque sono della politica e non del mercato. Per risolvere la crisi, la politica deve abbandonare il paradigma hayekiano e cioè prendere consapevolezza del fatto che il mercato non genera il benessere collettivo e ritornare a fare il suo lavoro.

  3. Caro Nunzio,
    non credo di avere torto. La letteratura sulla crisi scoppiata nel 2008 è ormai enorme, e per quel che ho letto ho trovato che la tesi nettamente prevalente è che essa abbia un’origine economica. Se leggi il libro di Stiglitz “Bancarotta” trovi pagine e pagine che descrivono come è nata e si è propagata: è stata la bolla edilizia, sono stati i titoli “tossici” per la casa che sono crollati ed hanno trascinato le banche americane. Tranne la grossa Lehman Brothers che è fallita, le altre – e alcune grandi industrie – sono state salvate dalla politica, dagli enormi capitali stanziati da Obama.
    Perciò io non condivido la tua affermazione: “La crisi che stiamo vivendo non è un caso di fallimento del mercato, ma della politica”. “Il mercato che si autoregola, si autodistrugge” ha detto il grande Samuelson. Ma io non chiedo che il mercato sia regolato dalla politica: questo è comunismo!
    Chiedo la coesistenza, Stato e mercato. E per Stato intendo la democrazia, i cittadini che decidono col voto i programmi; ed il mercato, il principale strumento della produzione e dello scambio, cooperi, con le sue regole, alla realizzazione del programma.

  4. Caro Giuseppe,
    conosco l’analisi di Stiglitz e sostanzialmente la trovo condivisibile. Ma il punto non è questo. Il punto è che la sua analisi spiega solo una parte della crisi. Ad esempio perchè così tante persone si sono indebitate per comprare casa? Perchè il settore finanziario è stato deregolamentato a tal punto da permettere le più spericolate alchimie della finanza, come ad esempio trasformare un debito in un titolo? Perchè per il credo politico di quegli anni “il mercato non sbaglia mai”.
    Eppure noi sapevamo già che il mercato non è in grado di autoregolarsi, è soggetto a pericolose fasi di oscillazione e soprattutto se lasciato a sé stesso tende non alla concorrenza perfetta, ma al monopolio e produce naturalmente una forte polarizzazione sociale, pochi ricchi tanti poveri. Basta leggere la Teoria generale di Keynes, piena zeppa di motteggi contro gli adoratori del mercato.
    L’idea che il mercato possa autoregolarsi e possa garantire il benessere collettivo, dunque, era già stata falsificata. Fu per rimediare agli orrori causati da quella falsa credenza che le liberal-democrazie occidentali, e non l’URSS, costruirono una fitta trama di regole per evitare che il mercato potesse auto distruggersi. Non solo, ma la politica oltre ad assumersi il compito di regolare, iniziò a costruire una possente classe media i cui consumi hanno fatto da traino al boom economico post-bellico e sono stati il vero motore del più lungo periodo di crescita delle storia umana.
    Quella classe media era una creatura politica, venuta alla luce grazie ad una tassazione fortemente progressiva (fino al 91% per il redditi più alti), alte tasse di successione, sostegno dei salari e della piena occupazione, nonché con la creazione di un possente stato sociale il cui fine era certamente politico (togliere voti ai partiti anti sistema) ma anche solidaristico (“la ripugnanza provata nel vedere un altro uomo soffrire” come scrive Ritter) ed anche economico. L’attualità cinese chiarisce perfettamente questo punto. Pechino sa che i consumi europei e americani caleranno nei prossimi anni. Deve pertanto abbandonare il suo modello di crescita trainato dalle esportazioni e provare a crescere sulla base dei consumi interni. Per far ciò i cinesi devono ridurre la propria propensione al risparmio (40% del reddito) e spendere di più. Ad oggi i cittadini cinesi risparmiano perchè sanno che in caso di malattia o di colpi avversi della sorte le spese ricadono sul bilancio familiare. Ecco perchè in Cina hanno deciso di creare un sistema sanitario nazionale: così la quota prima risparmiata per affrontare le spese mediche, potrà essere usata per fare shopping. Cosa che, tra parentesi, ha fatto anche Obama in America.
    Ora: la decisione di deregolamentare il mercato è politica, non economica. E’ politica la decisione di smantellare lo stato sociale. E’ politica la decisione di combattere i sindacati. E’ politica la decisione di non avere più come stelle polari della politica nazionale gli obiettivi della piena occupazione, del sostegno dei salari ed abbracciare della lotta all’inflazione e la competitività del “sistema-paese”, o economia dell’offerta. E’ politica la decisone di abbattere quegli argini che erano stati costruiti proprio per tutelarsi rispetto alla disfunzioni del mercato. Ed infine è politica la decisione di tagliare le tasse ai ricchi, continuando a tassare come e più di prima il ceto medio: le conseguenze solo ora stanno venendo a galla, e dobbiamo ringrazia Warren Buffet e Obama per questo: l’uomo più ricco d’America paga meno tasse rispetto alla sua segretaria (solo il 17%). La decisione di sperequare la società, liberando il mercato, è dunque politica. Ecco perchè continuo a sostenere che il mercato, in sé e per sé, non c’entra nulla e siamo di fronte ad un caso di fallimento di una visione politica.

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