L’occasione perduta della sinistra italiana

 Le dichiarazioni del Presidente Napolitano, in occasione del discorso in onore di Antonio Giolitti, riaprono una questione importante: l’assenza di una grande forza socialista nel nostro Paese. All’interno del vecchio PCI, già negli anni ottanta, Napolitano rappresentava proprio quell’area migliorista che guardava con interesse alla strada intrapresa dal PSI. Al contrario dei suoi compagni di partito, come lui stesso ora conferma, non aveva pregiudiziali nemmeno nei confronti di Bettino Craxi. Dunque, per il presidente della Repubblica, la naturale via d’uscita del PCI dalla crisi d’identità, generata non tanto e non solo dal crollo dei regimi comunisti esteuropei nel 1989 ma dal percorso autoritario di quei regimi nel dopoguerra, era intraprendere una strada comune con il PSI nell’alveo della socialdemocrazia europea. Lo diceva in tempi non sospetti, ben prima della svolta di Achille Occhetto. Questa era la strada maestra per costruire una sinistra credibile e affidabile, di governo come d’opposizione. L’89 rappresentò l’occasione storica per riunire tutta la sinistra sotto una sola bandiera. Persino chi, nel vecchio PCI, si schierava alla sinistra del partito, come Pietro Ingrao, una volta arrivati al punto di non ritorno, aveva accettato questa eventualità. In sintesi, il pensiero di Ingrao era il seguente: se proprio dobbiamo cambiare identità, c’è pronto il modello della SPD, la socialdemocrazia tedesca. Pareva una scelta obbligata: mantenere l’identità di partito dei lavoratori, pur tenendosi lontani da tentazioni massimaliste. Invece, in quei giorni tumultuosi, Occhetto esce prima con una dichiarazione che fa sobbalzare i politologi: “Noi siamo figli della Rivoluzione francese”. Con una frase, il segretario del PCI mette in soffitta settant’anni di storia, cancellando la Rivoluzione d’Ottobre e la scissione di Livorno, richiamandosi ad un evento catalogato nei libri di storia come “rivoluzione liberale” (o borghese), che è addirittura antecedente alla nascita dei partiti socialisti. Norberto Bobbio non crede alle proprie orecchie e si affretta a scrivere un breve saggio per chiarire il significato storico delle parole “destra” e “sinistra”. Evidentemente qualcosa bolle in pentola. Si vuole evitare l’umiliazione di dover ammettere che aveva ragione il PSI. Si decide quindi di scavalcarlo “a destra”. Si registra il viaggio americano di Occhetto e consorte, nonché l’invito di Eugenio Scalfari ad ispirarsi, anche nominalmente, al Partito Democratico degli USA. Occhetto aggiunge provvisoriamente due paroline: “della sinistra” – ma la cautela non lo salva dalla scissione di Rifondazione. Così, i partiti della sinistra, invece di superare le divisioni storiche, si moltiplicano. Si può anche riconoscere che – a livello mediatico – i nomi “socialista” e “socialdemocratico” avevano una tara, essendo stati portati da partiti per lungo tempo concorrenti (senza contare la questione di Tangentopoli). Ma allora perché non guardare, per nome e contenuti, almeno al partito laburista inglese, un partito del lavoro che sarebbe comunque restato nell’alveo della sinistra europea? La ragione ce la svela, tra le righe, Napolitano: l’ansia di andare al potere. Certo, mezzo secolo di opposizione, con la consapevolezza crescente di avere sbagliato strada, alimentano quell’ansia. L’ansia spinge a fare i conti con la calcolatrice, più che con le idee. Conti alla mano, meglio per l’ex PCI fondersi con i resti dell’ex DC e andare subito “al potere”, piuttosto che passare ancora qualche anno all’opposizione per costruire pazientemente un’alternativa credibile, con un’identità e un programma. Ora, però, all’opposizione il PD rischia di restarci a lungo e, conoscendo i democristiani, alla prossima sconfitta, assisteremo probabilmente al completamento dell’emorragia di quella componente verso il centro. Vent’anni perduti. Un’occasione mancata. Morale: come insegna tra gli altri l’utilitarista Jeremy Bentham, un godimento immediato ed effimero può precludere un godimento duraturo.

Riccardo Campa

 

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