La sinistra e il PD tra passato e futuro

La Prima Repubblica è caduta per l’incolmabile fossato che si era creato tra la sua classe politica e i cittadini.

Consci di tale situazione, i gruppi e i movimenti politici che sono scesi nell’arena politica dopo il ’92-’93 hanno avuto ben chiaro – almeno sino a ieri – il concetto che l’approdo ad una Seconda Repubblica richiedesse un rapporto meno elitario e più diretto tra leader politici e cittadini. Ovviamente questo non basta ancora a fondare una vera e compiuta prassi democratica. Non basta perché una vera e compiuta prassi democratica comporta la selezione delle classi politiche in modo aperto e a partire dal confronto democratico dal basso. Cioè selezione dei leader – di tutti i leader (nei partiti e nelle istituzioni) – con metodi di scelta rigidamente e impietosamente democratici: primarie a tutti i livelli (tra gli iscritti innanzitutto, ma poi anche tra gli elettori) e, possibilmente, maggioritario secco in collegi uninominali. Sono, queste, le uniche tecniche ad oggi conosciute in grado di dare risultati significativi e constatabili sul piano della democratizzazione della vita delle istituzioni politiche e dei partiti.

A suo modo, Berlusconi ha intercettato l’esigenza di superare l’elitismo, ma lo ha fatto introducendo semplicemente una cultura populista nel sistema politico italiano, saltando quindi a piè pari il passaggio di cui sopra, e cioè l’introduzione di vere pratiche democratiche; in altre parole, ha ritenuto di creare, sì, un rapporto più diretto tra leader e masse, ma non tenendo affatto in considerazione quelle elementari e decisive tecniche di selezione democratica o, se lo ha fatto, ciò è avvenuto se e fino a quando gli è convenuto, dando così prova di considerare quei metodi non dei fini ma dei mezzi, da usare a piacimento e da gettare via poi all’occorrenza.

Dall’altra parte, e cioè nel campo nostro, nel campo della sinistra, il cammino compiuto sino ad oggi per superare l’elitismo è stato un cammino che, pur faticoso, pur denso di difficoltà, di avanzamenti e arretramenti, aveva sino ad oggi raggiunto alcuni fondamentali approdi, vero miracolo di modernizzazione della cultura politica italiana: 1) il bipolarismo come ricchezza e come elemento di dialettica e di funzionamento del sistema politico; 2) il maggioritario, inteso anche se non in senso stretto, cioè come uninominale di collegio, almeno in senso ampio, cioè come prassi che vuole che chi ottiene la maggioranza governa, e chi non la ottiene sta all’opposizione; 3) il concetto – veramente rivoluzionario – che la sinistra vince unita in un grande partito, e perde se dispersa e frammentata in tanti partiti; 4) l’introduzione delle primarie nel partito per la selezione del leader; 5) il fatto che il leader del partito della sinistra sia, e debba essere, anche colui che si candida al governo del Paese; 6) gli elettori, e non le élites (o peggio le burocrazie) di partito, scelgono chi deve governarli.

Ho usato, come il lettore avrà certamente notato, il verbo all’imperfetto: la sinistra aveva sino ad oggi raggiunto come punti fermi questi principi. Certo, questo non può bastare, da solo, per sconfiggere l’avversario. Servono anche tante altre cose: un linguaggio politico al passo con un elettorato sempre più smaliziato e informato, argomenti concreti e in grado di offrire alternative appetibili, e tante altre cose che non staremo qui a ricordare e di cui, certo, D’Alema e Bersani sono esperti.

Ma sarebbe deleterio pensare che, poiché quei principi non bastano da soli a vincere, allora è venuto il momento di sconfessarli e di buttarli a mare. Sarebbe deleterio per due motivi: innanzitutto perché abdicare a quei principi significherebbe riportare, sic et simpliciter, la sinistra italiana, e con lei tutto il sistema politico, all’elitismo; in secondo luogo perché, pur non essendo sufficienti a vincere, essi sono comunque necessari; detto in altri termini, senza di essi, e soprattutto senza le condizioni che essi contribuiscono a creare, la sinistra non vincerà mai.

Ecco perché la proposta di Bersani e D’Alema non convince.

Non convince per il semplice fatto che, in ciò che hanno detto e in ciò che intendono fare, dimostrano di non credere, o di non credere più, a quei fondamentali princìpi. Non credono infatti ad almeno 4 dei 6 punti sopra elencati.

Non credono che il leader del maggior partito della sinistra debba essere anche il candidato Premier.

Non credono che i governi debbano essere scelti dagli elettori (hanno infatti più volte dato ad intendere che è bene che sia il Parlamento, e non gli elettori, ad eleggere il Governo).

Hanno in diverse occasioni dichiarato di non credere alle primarie, o per lo meno di non credere alle primarie che vedano anche la partecipazione degli elettori.

Infine, non sembrano credere più al bipolarismo, se è vero che propongono l’alleanza con il centro di Casini, formazione politica che chiunque creda veramente al bipolarismo dovrebbe cercare di non rimettere in gioco e dargli poteri che attualmente, per nostra fortuna, non ha più, come è invece toccato in sorte per 40 anni alla Democrazia Cristiana.

Andrea Millefiorini

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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