Per una nuova fase della democrazia nei luoghi di lavoro

A Mirafiori, come era prima avvenuto a Pomigliano, la maggioranza dei lavoratori ha approvato in un apposito referendum, le condizioni poste dall’Amministratore Delegato della FIAT Sergio Marchionne per reinvestire in Italia.

L’accordo è stato firmato da tutte le organizzazioni sindacali ad eccezione della FIOM CGIL. La Confindustria, dalla quale la FIAT è uscita limitatamente ai due stabilimenti in questione, ha fatto buon viso a cattivo gioco.

Il risultato del referendum è stato caratterizzato da una altissima partecipazione al voto (95%) e da un imprevisto numero di consensi negativi (38,8% a Pomigliano, 45,95% a Mirafiori). L’opposizione al piano dell’azienda è stata più forte tra gli operai, in particolare tra gli addetti al montaggio e alla lastratura. A Mirafiori, al netto del voto degli impiegati, il SI ha prevalso tra gli operai solo per nove voti.

Questo il risultato. Da interpretare e da commentare. Certo. Ma anche da archiviare, per pensare al futuro. Il dopo Mirafiori è infatti una formidabile occasione per costruire progetti di espansione e di ripresa della nostra economia.

Quello che è successo oggi non è paragonabile con il 1980. Allora la FIAT era con le spalle al muro, doveva ristrutturarsi, aveva più di 30.000 esuberi, era impegnata a fare i conti con il terrorismo, era bloccata da una assoluta ingovernabilità. Ora, invece, la FIAT per sopravvivere e per vivere deve investire, deve produrre nuovi modelli, deve avere soprattutto una grande flessibilità produttiva per rispondere con tempestività ed immediatezza alle domande di mercato mutevoli e spesso imprevedibili.

La FIAT è oggi una multinazionale; l’amministratore delegato deve portare utili ai propri azionisti; lo scenario non è l’Italia, ma il mondo. Siamo lontani anni luce da quelli in cui Valletta, Agnelli e Romiti esprimevano interessi nazionali ed erano tra i principali protagonisti della vita politica e sociale italiana.

E’ questa la nuova realtà.

Non l’ha capito il Governo. Non ha saputo svolgere un ruolo attivo limitandosi prima con l’ex Ministro Scajola, a offrire come contropartite generici incentivi, poi schierandosi per il SI in modo minaccioso. L’Esecutivo ha così sostanzialmente abdicato al suo ruolo di regista delle riforme necessarie per coniugare efficienza ed equità.

Non l’hanno capito i partiti dell’opposizione. Si sono frantumati in tante posizioni diverse che, in modo goffo, hanno cercato di strumentalizzare questa o quella organizzazione sindacale. Patetico poi è stato l’invito rivolto dai partiti ai sindacati di definire regole di rappresentanza nei posti di lavoro (sono stati addirittura presentati in Parlamento dei disegni di legge) quando gli stessi sono incapaci di cambiare la legge elettorale da tanti definita un obbrobrio.

Non l’hanno capito i sindacati. Sono stati colti alla sprovvista e sono stati messi con le spalle al muro: si sono divisi. La FIOM CGIL ha confermato le sue posizioni solitarie che già l’avevano portata a non firmare gli ultimi contratti di lavoro della categoria e a condizionare la propria confederazione nella definizione di nuove regole contrattuali con la Confindustria.

Il mito della FIAT e di Mirafiori, evocatore di scontri palingenetici di classe, ha fatto dimenticare le centinaia di accordi fatti in tante aziende metalmeccaniche per garantire l’occupazione e per impedire la delocalizzazione, con clausole simili a quelle poste da Sergio Marchionne. Tregue conflittuali, iniziative contro l’assenteismo ingiustificato, rimessa in discussione di diritti acquisiti hanno permesso a molte aziende di rimanere in attività, di ristrutturarsi, di tornare competitive.

Ora, dopo Pomigliano e Mirafiori, si deve e si può voltare pagina.

L’obiettivo è, nei prossimi mesi, di convincere chi ha votato SI per paura e chi ha votato NO per prevenzione ideologica, sulla necessità di voltare pagina. Questo richiede la definizione di regole certe per praticare la democrazia. L’unità sindacale appartiene al passato; l’unità d’azione è molto fragile; c’è una competizione tra proposte diverse. Prendiamone atto. Si discuta, ci si confronti, si facciano votare i lavoratori, si decida e, una volta deciso, tutti dovranno essere vincolati ad applicare le tesi che hanno prevalso. Questa è la democrazia. E’ bene che l’accordo nasca tra le parti e, soprattutto, che in fabbrica i lavoratori possano scegliere i propri rappresentanti nelle liste che verranno presentate. Sono diffidente per iniziative legislative. Spero che si eviti nelle fabbriche quello che è avvenuto in Parlamento: abbiamo bisogno di eletti, non di nominati.

Ma c’è un salto culturale da fare. E’ ormai improcrastinabile nel nostro paese imboccare la strada della partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese. Va bene la partecipazione agli utili, ma non basta. Quando si chiede di rimettere in discussione dei diritti acquisiti, quando si chiede maggiore flessibilità e un aumento dei turni di lavoro con una diminuzione delle pause, quando si chiede di dare tutto per la qualità del prodotto, non si può chiedere una delega in bianco. Ci deve essere per i lavoratori e per i sindacati una esigibilità degli impegni dell’imprenditore ed un controllo sulla loro attuazione.

Si tratta in sostanza di definire in Italia meccanismi di cogestione o di partecipazione dei lavoratori nelle imprese italiane.

Walter Veltroni in una recente intervista ha riscoperto Bruno Buozzi (sono passati novanta anni, ma meglio tardi che mai!); Eugenio Scalfari e molti altri editorialisti, commentando l’esito del referendum a Mirafiori, hanno sollecitato a muoversi in quella direzione. E poi, il capitalismo “renano” che tutti ritenevano in crisi irreversibile di fronte all’effimera efficienza del capitalismo statunitense ed inglese, è tornato a correre grazie alla collaborazione tra impresa e lavoratori in Germania, con un incredibile recupero di produttività.

Ha funzionato insomma la concertazione tra le forze produttive, che ha realizzato intese forti su obiettivi di lungo periodo.

Sergio Marchionne deve aprirsi a questa possibilità, a questa sfida. La UIL e la CISL ci sono già. Non può mancare la CGIL.

E la Confindustria? E la Federmeccanica? Non possono cavarsela con un sorriso di scetticismo e di compatimento. Non devono dire: i sindacati e gli operai non possono comprendere i complicati processi produttivi, i problemi tecnici della finanza, la globalizzazione, il mercato. C’è qualche verità. Ma è altrettanto vero che non c’è alternativa: occorre andare in quella direzione. La si può ritardare ma non la si può evitare. La fabbrica non è una caserma, la si governa con la partecipazione e il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori.

Indro Montanelli nel gennaio del 1970, commentando la conclusione della stagione dell’autunno caldo del 1969, scriveva: “l’operaio oggi non si contenta più di un lavoro pagato sempre meglio; vuole anche sapere che cosa questo lavoro rende a chi glielo dà, a cosa serve, quali sono le prospettive per il futuro.. E’ venuto il momento in cui vanno chiesti maggiori ragguagli sull’andamento dell’azienda e qualche diritto di sindacato sulla sua gestione….. L’operaio vuole anche sapere dove va il treno su cui viaggia. Il “proibito parlare con il conduttore” ha fatto il suo tempo, o sta per farlo. E’ bene prepararsi a questa scadenza.” Parole sagge e profetiche. Abbiamo perduto tanto, troppo tempo. Non perdiamone ancora dell’altro.

 

Giorgio Benvenuto

 

fondazione nenni

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