Ventidue anni fa non pochi osservatori sentenziarono che le macerie del Muro di Berlino avevano seppellito l’idea socialista. Ora, se per socialismo si intende l’abolizione della proprietà privata e la statizzazione integrale delle risorse economiche , quella sentenza è inappellabile. Ed è bene che ciò sia accaduto, perché il mito del socialismo come piano unico di produzione e di distribuzione ha accecato gli spiriti, inducendoli a cercare la democrazia sostanziale nella direzione sbagliata. Ma il socialismo non è stato mai un plurale. Molteplici sono state le sue versioni. Fra le quali quella laburista — elaborata, in frontale polemica con il marxismo, dagli intellettuali della Fabian Society – è risultata essere, alla prova della storia, la più fertile di risultati. I quali sono stati tanto positivi per le classi proletarie da indurre il liberale Ralf Dahrendorf a definire l’istituzionalizzazione del Welfare State la più benefica rivoluzione culturale dell’intera storia dell’umanità. Lo stesso Dahrendorf, però, ha affermato che il socialismo, anche nella sua versione fabiana, non ha più alcun futuro in quanto ha ormai esaurito la sua benefica funzione storica: l’universalizzazione dei diritti di cittadinanza ( civili, politici e sociali) attraverso l’allargamento del perimetro borghese dello Stato di diritto.
Non di questo avviso è Gerald Cohen, brillante filosofo canadese educato ad Oxford, dove si è fatta la reputazione di essere uno dei maggiori teorici del socialismo liberale. Con grande rigore analitico, in un saggio che merita la massima attenzione ( Socialismo. Perché no ?, Ponte alle Grazie, Milano 2010), ha illustrato i principi fondamentali della cultura socialista. Fra i quali un posto privilegiato occupa, ovviamente, l’ eguaglianza. Un’eguaglianza concepita non in modo puramente formale ( eguaglianza di fronte alla legge o eguaglianza delle opportunità), bensì in modo sostanziale. Il che significa che lo specifico di una politica socialista è la riduzione delle disuguaglianze e la re-distribuzione delle risorse materiali di modo che a tutti i cittadini sia garantito “un reddito base effettivo indipendente dal mercato” . E ciò per una ragione assai semplice, sistematicamente dimenticata dai “fondamentalisti del mercato”: che la libertà – principio di base della civiltà occidentale – è una parola vuota per chi è completamente privo di mezzi.
Ma il principio sul quale Cohen insiste maggiormente è quello della solidarietà o, come egli preferisce chiamarlo , il “principio di comunità”, il quale è “antitetico al mercato”. Non che il socialismo debba radere al suolo il capitalismo. L’esperienza storica ha dimostrato in modo inequivocabile che cancellare l’iniziativa privata equivale a strozzare quella che Bucharin chiamava la “gallina dalle uova d’oro” e, di conseguenza, condannare alla miseria più atroce le classi proletarie. Ciò che Cohen auspica è un socialismo che corregga la logica (competitiva e dissociativa) del mercato in nome della “reciprocità comunitaria”. Il che, a ben guardare, è esattamente ciò che ha sempre auspicato il più influente filosofo politico della seconda metà del XX secolo : John Rawls.
Luciano Pellicani