Crisi della politica e relazioni industriali: il caso Fiat

Durante gli ultimi trent’anni, più o meno in corrispondenza del superamento del bipolarismo internazionale, la retorica del libero mercato ha surclassato il primato della politica e ha soffocato qualunque tentativo di organizzare una governance per la globalizzazione. La progressiva erosione della sovranità degli stati, tuttavia, non ha impedito a questi ultimi di ricorrere alla leva politica per tutelare gli interessi nazionali; lo testimoniano i salvataggi bancari seguiti alla crisi finanziaria del 2008. Anche all’interno dell’Unione Europea, l’esempio più avanzato d’integrazione economica sovranazionale, il principio della salvaguardia degli asset strategici continua a prevalere sulla logica del mercato comune, spingendo i singoli paesi ad adottare misure protezionistiche come nel caso dello stop francese all’operazione Enel-Electrabel. La formazione di una prospettiva prettamente transnazionale è ancora lontana e non può prescindere da un’integrazione anche sociale della comunità (sia essa europea o, in proiezione, globale); fino a quel momento, la capacità di governare le relazioni industriali resterà la misura principale della forza politica di uno stato. Il caso della Fiat, in tal senso, dimostra che la crisi della politica in Italia è più acuta di quelle nei paesi suoi pari, che nondimeno devono sottostare alla supremazia della lex mercatoria.

Non tutti condividono la necessità di fornire una direzione politica ai settori strategici dell’economia; i liberisti sostengono una tesi di segno opposto, ragion per cui le scelte industriali dell’amministratore delegato della Fiat dovrebbero essere giudicate esclusivamente dal mercato. S’intuisce facilmente che non è questa l’opinione di chi scrive, ma ci sono validi motivi per credere che non sia nemmeno l’opinione dello stesso Marchionne. La favola del manager globale che prescinde dai condizionamenti politici dei governi nazionali, infatti, resiste solo nell’immaginario liberista; la prassi racconta un’altra storia, fatta di realpolitik e costanti trattative, in cui Marchionne sta impiegando tutte le sue doti di negoziatore. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché la Fiat dovrebbe rinunciare agli alti rendimenti dello stabilimento polacco di Tichy per salvare l’improduttiva Pomigliano d’Arco, o perché dovrebbe caricarsi i costi di trasporto oceanici delle automobili assemblate a Mirafiori e destinate al mercato statunitense, invece di produrle direttamente in loco negli stabilimenti Chrysler. I compromessi, le fughe in avanti e le smentite affidate ai media sono il segno inequivocabile della partita squisitamente politica che sta giocando Marchionne; la differenza, allora, la fanno quei rapporti di forza che i liberisti si ostinano a ignorare, ma che determinano l’entità della contropartita sociale pagata dai lavoratori (leggasi: la chiusura di Termini Imerese, la stretta sulle condizioni di lavoro a Pomigliano e Mirafiori).

Dopo la crisi, negli Stati Uniti come in Germania, la politica si è assunta la responsabilità del futuro del settore automobilistico, le cui industrie sono considerate asset strategici dei rispettivi paesi. Nel primo caso, Obama ha dettato a Marchionne le condizioni dell’ingente finanziamento pubblico ottenuto dalla Chrysler; nell’altro, il sindacato tedesco non si è fidato dei suoi piani per l’acquisizione di Opel, rispedendo l’offerta al mittente. In Italia, invece, le parti si sono rovesciate, laddove la politica si è sostanzialmente genuflessa alla volontà dell’amministratore delegato. Non sorprende che il governo Berlusconi, indifferente per tradizione ai problemi del paese reale, sia risultato del tutto assente nella vicenda, avendo perfino evitato di esigere un piano industriale per un comparto da cui dipendono 80.000 posti di lavoro (nonché più del doppio nell’indotto); ma è l’impasse delle opposizioni e dei sindacati il dato davvero sconcertante. A giugno del 2010, quando Marchionne vincolò il destino dello stabilimento di Pomigliano all’esito del referendum sulle deroghe al contratto nazionale, Bersani ed Epifani adottarono il mantra del “caso isolato”, sottolineando più e più volte l’eccezionalità della situazione; ma in cuor loro, sapevano perfettamente che si sarebbe innescato un effetto domino sulle relazioni industriali. Sette mesi dopo, la ripetizione dello stesso referendum a Mirafiori e la fuoriuscita della new company della Fiat da Confindustria hanno definitivamente affossato il dialogo tra le parti sociali, inferendo un colpo durissimo allo statuto dei lavoratori e alla contrattazione collettiva.

Al di là delle valutazioni sul merito degli accordi conclusi a Pomigliano e Mirafiori, l’aggiramento di tutti i canali istituzionali deputati a occuparsi dei temi del lavoro è esattamente la cifra della crisi della politica italiana, che quasi si compiace di svolgere un ruolo subalterno all’economia. Comunque la si pensi sull’istituto della contrattazione collettiva, ritenere di poterlo riformare senza passare dal parlamento è, tecnicamente parlando, una pretesa eversiva. In quest’ottica, con il suo atteggiamento passivo, il Partito democratico si è reso complice di un’offesa dello stato di diritto, oltre che dello stato sociale di cui avrebbe dovuto essere il primo garante. Evidentemente, il più importante partito del centrosinistra e il primo sindacato del paese non si sentivano abbastanza forti per assumere, di fronte alla pubblica opinione, la responsabilità di contraddire Marchionne e rischiare di compromettere gli investimenti promessi dalla Fiat. Di questa crisi dell’autorità e perfino dell’autorevolezza della politica, ne pagheranno le conseguenze i lavoratori, che hanno smesso da tempo di essere il centro degli interessi delle organizzazioni costituitesi in loro nome.

Mario Trifuoggi

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

2 thoughts on “Crisi della politica e relazioni industriali: il caso Fiat

  1. Prendo spunto dalle riflessioni di Trifuoggi per andare oltre sul tema dei rapporti tra sindacati e lavoratori. E porre brutalmente la domanda: l’autonomia dei lavoratori dal sindacato non è un problema? O meglio: non è un problema l’autonomia dei lavoratori autoorganizzati nei luoghi di lavoro? Questa idea è alla base del socialismo marxista: i lavoratori espropriano i capitalisti padroni. E’ stata al centro del dibattito sui consigli operai: Gramsci distingueva nettamente il consiglio di fabbrica dal sindacato. Quando è ripresa la vita democratica in Italia il sindacato ha occupato tutto il mondo del lavoro: ci fu un tentativo, nato e morto, di Rodolfo Morandi, ministro dell’industria nel 1946, di istituire con legge i consigli di gestione. Sono nate invece le commissioni interne, come emanazioni sindacali e pochissimo spazio è stato lasciato all’iniziativa dei lavoratori non sindacalizzati. La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è iscritta solennemente ma vacuamente nell’art. 46 della Costituzione.
    Si parla di “secondo livello” ma principalmente in tema retributivo. E soprattutto come un livello della scala sindacale. Aprire il tema della autonomia – anche dai sindacati- dei lavoratori nei luoghi di lavoro non sarebbe utile solo alla produttività, ma anche alla dignità ed al potere della classe operaia che vota in buona parte per la Lega perchè non c’è una sinistra nella quale credere e riconoscersi. Nello squallore della vita politica e sindacale ha brillato di luce intensa il gesto di quegli operai di Mirafiori – quasi la metà dei votanti- che per far valere la propria dignità e difendere la loro libertà hanno votato “no” a Marchionne: eroicamente, perchè si condannavano a perdere il lavoro. Questo straordinario patrimonio va coltivato dando ai lavoratori il diritto di farsi valere: autonomamente. Naturalmente occorre una legge: quella che ha presentato Ichino è un’ottima proposta.

  2. grazie del commento.
    in effetti, anch’io ritengo centrale il tema dell’autonomia dei lavoratori. in questo senso, le inadempienze che imputo alla sinistra italiana e ai sindacati dipendono, in larga parte, dallo smarrimento di una solida cultura socialdemocratica.
    per tornare all’esempio che avevo citato: in Germania, tra le patrie nobili della socialdemocrazia, il modello della corporate governance ha valorizzato proprio la partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione del capitale. non voglio generalizzare, ma conterà pur qualcosa se la Volkswagen vola e se l’Opel decide di chiudere la porta in faccia alla Fiat.
    tornerò volentieri sull’argomento quando avrò approfondito la proposta di Ichino.

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