Che una crisi ci sia o ci sia stata è ormai un fatto chiaro ai più. Questo significa che qualcosa non ha funzionato. Volendo ridurre il discorso all’osso, viene allora da chiedersi cosa non ha funzionato? Chi ha sbagliato? Lo Stato/la politica o il mercato/l’impresa?
Io credo che le colpe vadano addossate alla politica, o meglio ad una determinata visione politica. Provo a spiegarmi. Compito del mercato è quello di produrre ricchezza e, anche se l’affermazione rischia di essere un po’ problematica, progresso, o quanto meno favorirlo. Ora, se si guarda alla storia degli ultimi trent’anni, appare evidente che sono state prodotte ricchezze strabilianti e tecnologie delle meraviglie. Il mercato quindi ha fatto il suo dovere.
Il compito della politica è quello di garantire il benessere generale. Come dimostra la crisi economica, questo non è avvenuto. Infatti, la crisi è il frutto dell’esplosione del debito delle famiglie dei paesi sviluppati, che si sono dovute indebitare perché si sono impoverite. In breve la crisi è il frutto della disuguaglianza, il che significa che il benessere non è stato generale. La politica, dunque, non ha fatto il suo dovere.
Questo inoltre significa che la crisi economica è il frutto di una crisi sociale, la cui origine è anch’essa politica e che essenzialmente può essere individuata: 1) nell’opera di smantellamento di quelle norme e di quegli istituti che erano stati creati per regolare il mercato e per redistribuire la ricchezza; 2) nell’occlusione (o privatizzazione) dei canali di ascesa sociale (la scuola pubblica) e degli strumenti per l’assistenza (pensioni e sanità).
Ciò induce ad affermare che la politica ha fallito perché si è illusa che il mercato potesse essere lo strumento ideale non solo per creare ricchezza (il che è vero) ma anche per raggiungere il benessere collettivo (il che si è dimostrato falso).
Infatti il mercato lasciato a se stesso tende al monopolio e senza strumenti correttivi (tassazione progressiva e redistribuzione della ricchezza e delle opportunità) tende alla polarizzazione della ricchezza, in altre parole allo sfaldamento della classe media. Quella classe media che è stata la vera protagonista dei Trenta gloriosi. Una classe media che è stata, per dirla con Krugman, creata dalla politica, dal Keynes-Beveridge Consensus. Questo significa che il mercato lasciato completamente libero produce “naturalmente” disuguaglianza e non genera una classe media.
In sintesi, si può sostenere che se il XIX e parte del XX secolo hanno visto l’allargamento a strati sempre più ampi della popolazione dei diritti e delle possibilità dello stato borghese, negli ultimi decenni abbiamo assistito al deflusso di tali diritti. Questo ci porta alla conclusione che la crisi ha la sua origine dal fatto che, parafrasando Carlo Rosselli, dal liberalismo è stato, chirurgicamente, staccato il socialismo.
Tale operazione ha avuto un suo fulcro: lo smantellamento delle norme, delle politiche e delle prassi a tutela del lavoro, il cui fine era quello di salvaguardarne la stabilità e la retribuzione. Di qui è iniziata la disuguaglianza, come sostiene anche Martin Wolf.
E’, pertanto, da questo punto che bisogna ripartire: la stabilità del lavoro e la tutela del salario, perché la mortificazione del lavoro, per dirla con Sachs, non è “il prezzo inevitabile da pagare per un’economia altamente competitiva”. La crisi, al contrario, ha dimostrato che è proprio la mortificazione del lavoro e del salario ciò che ha aperto la strada al disastro sociale ed economico attuale.
Nunzio Mastrolia