Cùcuta, on the border: dov’è finita la rivoluzione bolivariana di Venezuela?

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

A Cúcuta nella regione di Tachira, lungo il confine tra Venezuela e Colombia, sono scese le tenebre della storia. Laddove migliaia di venezuelani in fuga dal Paese si apprestano ad attraversare il border controllato dai militari venezuelani, si è scatenato tutto l’orrore di cui soltanto gli esseri umani sono capaci. Per denaro, per sopravvivenza o per semplice crudeltà o istinto di morte. In questa ennesima no man’s land (sono, di solito, le guerre e le catastrofi umanitarie a crearle) si mercificano i corpi, si specula sulla vita delle persone, si trattano i fuggitivi come migranti a cui togliere tutto, perfino la propria dignità. Ma chi riesce a passare la frontiera e a salvarsi da questo progressivo dissolversi dell’uomo, come potrà ricordare, come riuscirà a ricostruire in un altrove obbligato e dunque non voluto una vita che è stata negata? Del resto, la migrazione, in quanto atto volontario, tende a legittimare i suoi “aguzzini” per ogni sorta di nefandezza, dalle sevizie alla detenzione.

La storia della sinistra latinoamericana e in generale di tutta la sinistra è segnata dal tradimento e dal naufragio di rivoluzioni o di sogni rivoluzionari finiti male o trasferitisi con non poche forzature retoriche in una pletora di regimi autoritari. Una narrazione spesso grandiosa e tragica, al confronto della quale la Baia dei Porci (1961) o il più recente tentativo d’invasione del Venezuela da parte di truppe irregolari nordamericane appoggiate dall’opposizione interna al regime di Nicolás Maduro, sembrano davvero pallidi conati di una reazione mai sazia di potere. Ciò che a Hugo Chávez Frías non riuscì mai, fu di eguagliare in tutto il proprio idolo: Fidel Castro Ruz. La sua “rivoluzione bolivariana”, che almeno agli inizi fu effettivamente accolta da tanti osservatori internazionali (e non soltanto comunisti), come una speranza per l’America Latina, non aveva conosciuto la radicalità di quella cubana, dove un potere totalitario e “feudale” appoggiato dal gigante nordamericano, veniva cancellato, con la forza delle armi e dell’energia rivoluzionaria, ma piuttosto una progressiva trasformazione sociale con un forte indirizzo di classe in senso socialista, senza per questo rinunciare alle libertà parlamentari. Ma a differenza dell’isola caraibica dove l’ideologia fu sempre il perno su cui ruota l’intero stato cubano, nel Venezuela la posta in gioco è ben più alta: il petrolio. Ed è proprio intorno all’oro nero, che un tempo fece ricco questo paese, forse il più ricco del Sudamerica, che si è giocata e si sta giocando una partita truccata. Ma anche sui giacimenti d’oro nell’ Arco Minero, una vasta area situata lungo il corso del gran fiume Orinoco, risorsa di riserva per un governo posto di fronte alla crisi petrolifera. Oggi, infatti, gli ideali socialisti ed anche tutta la retorica populista di cui si ammantava la figura altera dell’uomo e presidente Chávez sembrano essersi vanificati in un duro confronto che non sembra avere fine, con l’opposizione interna del leader fantoccio Guaidó, appoggiata dagli Stati Uniti attraverso l’embargo e il blocco creditizio delle banche statunitensi, la povertà diffusa in tutte le classi sociali avvenuta in seguito al crollo della moneta locale, il bolívar, (nel 2020 il dollaro costava 72 mila bolívares, oggi, invece, costa 2.150.000 bolívares) e alla conseguente “dollarizzazione” del paese, la violenza quotidiana indiscriminata e la corruzione dei vertici politici che controllano la più grande impresa del paese, quella del petrolio, appunto, spartendosi i profitti in sfregio alla povertà generale, intrecciati con un altro elemento non meno insidioso che, in fondo, ne è la conseguenza, ovvero quel capitalismo primitivo e selvaggio che nell’innescare una guerra tra poveri, alimenta l’arricchimento forzato di pochi, di pochissimi. Nonostante questo, alle ultime elezioni politiche il governo di Maduro ottiene ancora un ampio consenso a fronte di una sempre più scarsa presenza alle urne, e nonostante il maldestro tentativo dell’opposizione di boicottarle. Verrebbe, forse, da dire: né con Maduro né con l’opposizione, ma certo è che una vera alternativa al caos non sembra ancora apparire all’orizzonte. Il Paese che soltanto a metà degli anni 2000, era ancora vivibile, pur già afflitto da una serie di problemi irrisolti, dove, ad esempio, la classe media intellettuale si sentiva ugualmente discriminata dal populismo alla base della retorica chavista, oggi, invece, sembra una rappresentazione concreta dell’inferno, dove la desolazione, la rabbia e l’indigenza spingono a fuggire, a lasciare il paese in un esodo drammatico e di proporzioni come non se ne sono viste in tutto il Continente. Come i messicani verso gli Stati Uniti, come i guatemaltechi verso il Messico e ancora gli Stati Uniti. Lasciandosi tutto alle spalle, ad eccezione degli affetti e del ricordo di un Paese diverso e più umano. Alternative alla fuga sembrano essere solo la disumanizzazione, sempre complice della barbarie, oppure la solitudine e l’isolamento, sorta di resistenza passiva tenacemente vissuta giorno per giorno.

E così che la storia di M.B.Z. (e lei stessa a chiedere di non essere nominata per garantire la propria sicurezza), una giornalista venezuelana, da anni residente in Italia, a Genova, diventa, per così dire, esemplare di una condizione umana, di uno stato d’animo a cui non è possibile, per colei che lo ha vissuto, far seguire un’azione concreta. Quella del viaggio in solitudine. Del ricongiungersi degli affetti. Dal 2009 la giornalista mancava dal suo paese, gli anni in cui si è consumato il dramma del popolo venezuelano che non può più credere nel proprio governo né tantomeno in un’opposizione strumentale a interessi stranieri e di una ristretta minoranza di potere politico ed economico. E’ dunque, un lento, febbrile ritorno a casa quello di M. B. Z. Colmo di speranza e di desiderio. In direzione ostinata e contraria rispetto a quella dei migranti. Ogni venezuelano che vive all’estero e ha la famiglia là, vive ogni giorno in ansia ed è dal 2017 che tutti abbiamo i cuori spezzati per un susseguirsi di lutti, sono le sue parole. Vuole fare ritorno al paese andino dove è cresciuta, San Cristóbal che si trova a circa 100 chilometri dal confine di stato, e dove ad aspettarla c’è la sua famiglia che, come moltissime altre, in questi anni si è impoverita fino al limite dell’indigenza. Inoltre per curare il padre ottantenne, malato di cuore, servono strumentazioni mediche impossibile da reperire. Anche i medicinali scarseggiano e quando ci sono, i loro prezzi sono altissimi. Chi può approfitta della situazione per speculare sui generi di prima necessità, qualsiasi cosa di cui la gente abbia un disperato bisogno. Un mercato umano. Infatti, dal 2001 al 2009 ero caduta anch’io nella retorica buonista dei chavismo, dice senza alcun indugio, anche se già prima, durante un viaggio nel 1999, avevo intuito che in Venezuela si era giunti alla pazzia collettiva…

E’ un lungo viaggio quello di M.B.Z. che, iniziato da Santa Fé de Bogotá, in volo fino al nuovo aeroporto di Cúcuta, sorvolando la città di Bucaramanga, dove si consuma la vicenda eroica e tragica di Geo von Lengerke, protagonista del romanzo del colombiano Pedro Gómez Valderrama L’otra raya del tigre, 1986 (1), si conclude, finalmente, a San Cristóbal, nel distretto andino di Táchira. Ad accoglierla è uno dei fratelli che l’aiuta a sbrigare le pratiche burocratiche di frontiera che si rivelano confuse e reiterate per ore e giorni.  La linea di confine è segnata dalla presenza di un ponte lungo circa un chilometro e mezzo, sotto il quale scorre il fiume Táchira, da cui il nome della regione, sempre affollato di corpi in movimento, c’è un gran mare di gente che alla fine si mette in fila in attesa del proprio turno al controllo dei documenti che può anche durare cinque ore. Chi controlla il confine e scortica la pelle dei migranti venezuelani sono i militari venezuelani, i diversi corpi speciali e le loro mafie. Altri, stremati per il viaggio e per il calore, si fermano qualche chilometro prima della linea di confine, nella speranza di trovare un posto per trascorrere la notte. C’è perfino un andirivieni di venezuelani di ritorno nel proprio paese dopo una breve trasferta in Colombia per acquistare beni di consumo a prezzi decisamente più bassi.  Per la giornalista che lo ha percorso per ben sei volte, vedere migliaia di cittadini venezuelani che avevano perso tutto, senza riparo e senza un destino certo, è straziante. La sua, tuttavia, è un’altra storia, quella di una donna che molti anni prima, per ragioni familiari aveva scelto di vivere in Italia, mai venendo meno alla memoria dei luoghi, allo stretto legame con i genitori e i fratelli.  Eppure non si sente affatto diversa da quella gente, comprendendone sino in fondo le ragioni. Nell’attraversare la linea di confine, lei riesce a parlare con le persone che le passano accanto, vorrebbe scattare delle fotografie per documentare tutto: luoghi, persone, paesaggi, militari, segnaletiche, fili spinati, ma il timore di essere fermata dalla polizia di frontiera, la costringe a desistere.

Le mie gambe sono stanche, mentre cammino a fatica, vedo finalmente la terra venezuelana. E’già sera, e incredibilmente, da questa parte di confine le luci sono spente. Non avevo mai visto niente di simile: decine di persone che avanzano lentamente nel buio. Siamo ombre di noi stessi. Eppure abbiamo scelto di vivere.

San Cristóbal, amata e odiata città della sua adolescenza, non è poi così lontana. Un viaggio breve e tranquillo. L’emozione di sentirsi nuovamente a casa, è più forte di qualsiasi avversità. Ritornerà pochi giorni dopo in Italia, a Genova, città che ha imparato ad amare, con la felicità e il dolore nel cuore. Più forte di prima. Con molta più rabbia e nostalgia.

 

 

Note

  1. Pedro Gómez Valderrama, Al di là del regno, a cura di Maurizio Fantoni Minnella, traduzione dallo spagnolo di Enza Minnella, Macchione editore, Varese 2007

 

 

 

N°: 35 del 15/04/2021

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