-di PIERLUIGI PIETRICOLA–
Enrico Vaime ci ha lasciato. Da ieri sera rimbalzano notizie che ricordano la sua statura di artista e intellettuale, la sua intelligenza, la sua ironia, e chi più ne ha più ne metta.
Enrico odiava il luogo comune. Posso dirlo mettendoci la mano sul fuoco, perché ho avuto la fortuna di conoscerlo e l’onore di essere suo amico. Non esisteva fatto, avvenimento, occasione sui quali non esercitasse ironia. Tutto era spunto per una battuta.
Conobbi Enrico nel 2008 in occasione della presentazione di un suo libro: Quando la rucola non c’era. Combinammo in quattro e quattr’otto e il giorno dell’evento andai a prenderlo con la mia macchina. Erano gli anni in cui abitava in un complesso residenziale bellissimo sulla via Cassia, di quelli che all’ingresso hanno un portiere che controlla chi entra, dove si va e chiede la ragione della visita: “Sono qui perché ho un appuntamento con il dottor Vaime”, risposi.
“Vada dritto. La palazzina è la seconda sulla destra dopo l’albero. Intanto lo avviso che lei è qui”.
Dopo neppure cinque minuti, ecco arrivare Vaime. Vestito con giacca nera; sotto, una camicia sempre nera fuori dai pantaloni e rigorosamente senza cravatta. Camminava in modo leggero, tranquillo. Il viso e lo sguardo tradivano l’espressione disincantata tipica di un uomo di tale e tanta esperienza che, ormai, più nulla lo avrebbe potuto mettere in ansia. Non era insensibilità la sua, ma una sorta di stoicismo che si raggiunge dopo aver attraversato dispiaceri e dure prove senza cambiare in peggio il proprio animo.
Appena lo vidi gli dissi: “Buongiorno”. Mi rispose: “Non ne vedo la ragione”. Scoppiai in una risata che non potei trattenere.
Diventammo amici da subito. In tredici anni sono state tante le occasioni in cui con Enrico ci siamo divertiti. Ricordarle nel dettaglio non è facile e neppure renderebbe lo spirito di quello che ho avuto la fortuna di vivere.
Mi vengono alla mente rapidi episodi. Ad esempio quando lo chiamavo e gli chiedevo: “Come stai?”, mi rispondeva: “Non mi lamento. Anche perché se lo facessi non fregherebbe niente a nessuno”.
Se doveva scrivere un libro, un articolo o un intervento per la tv o la radio, non c’era organizzazione per tempo del lavoro. Enrico era l’uomo dell’ultimo minuto. “E tanto che ci vuole?”, diceva sempre.
Se ci si spostava per Roma, le zone a traffico limitato per lui erano opzioni. E se gli facevo notare che era proibito andare in macchina, per esempio, a piazza Navona, lui rispondeva: “Io lo faccio sempre”. Quando, poi, il postino gli recapitava a casa i verbali delle varie infrazioni, le apriva come fossero lettere normali: “È arrivata un’altra multa!”, diceva.
Ed io: “Come un’altra”?
“Eh sì! Con la polizia ormai abbiamo un rapporto intimo”.
Quando ogni tanto andavamo a pranzo insieme, mi divertiva portarlo fuori Roma, in provincia dove abito. Appena usciti dal raccordo anulare, Enrico si guardava intorno in modo sornione. Poi mi chiedeva: “Ma qui il prefisso è sempre 06”?
“Certo”!
“Ma sei sicuro”?
“Vuoi che non lo sappia”?
“Secondo me siamo finiti a Napoli senza accorgercene”.
“Ti fidi di me”?
“No. Ma ormai non ha più importanza”.
E potrei continuare all’infinito.
Da due anni non vedevo Enrico. Sapevo che non stava bene. Chiedevo sue notizie a un amico in comune, e purtroppo non erano buone.
Poi ieri sera è accaduto quello che ci si aspettava ma che, ingenuamente e anche egoisticamente, mi auguravo non avvenisse mai.
Enrico Vaime avrebbe meritato più onori e più glorie da parte del mondo artistico e intellettuale italiano. Se oggi molti attori possono vantare monologhi esilaranti entrati nel loro repertorio migliore, lo debbono a lui. Se la televisione può annoverare trasmissioni storiche, lo debbono sempre a lui. Se molti editori piccoli, ignoti e dal catalogo inesistente sono diventati conosciuti e hanno acquisito qualità, il merito è solo di Enrico Vaime.
Da troppo tempo la cosiddetta industria dello spettacolo – fatta qualche rara eccezione – lo aveva dimenticato. Non appariva più in tv. La sua rubrica a Omnibus su La7 venne soppressa di punto in bianco senza una ragione pur essendo seguitissima. Un atto indegno, vergognoso.
Oggi sento dire: “Enrico Vaime è stato un genio, un maestro di stile e di eleganza, un intellettuale come ce ne sono pochi! Un onore aver lavorato con lui”.
Tutto vero. Enrico Vaime era tutto questo. Un venerato maestro, per riprendere la metafora di Arbasino, circondato da troppi soliti stronzi.
N°: 31 del 29/03/2021