– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Tutto era cominciato a Seattle, stato di Washington, nel 1999. Un Forum Sociale, così si chiamava l’organismo civico e di stampo movimentista che a livello internazionale si proponeva di contrastare lo strapotere delle multinazionali nell’economia e nella finanza, nella salute e nell’ambiente, s’impegnò a contrastare pacificamente e con la forza delle idee lo svolgimento dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio). Era nato il Movimento dei Movimenti, per molti, semplificando, Movimento no-global, in quanto si poneva in netta opposizione al crescente fenomeno della globalizzazione economica, appunto dalle società multinazionali. Ci furono disordini, in ogni modo si cercò di contrastare con la forza le manifestazioni, al solo scopo di dimostrare che esse erano fautrici di violenza, che l’antagonismo pacifico e consapevole non avrebbe mai trovato legittimità nelle stanze del potere, essendo, di fatto, appena tollerato in quelle della pubblica autorità. Diversi anni dopo ci fecero perfino un film dal titolo emblematico The Battle of Seattle, 2007 di Stuart Townsend.
A Genova nel 2001, è un’estate torrida. Ci riprova il Movimento, un grande movimento di uomini e donne provenienti da diversi paesi d’Europa, decisi a rifiutare la visione neocapitalistico finanziaria del modello di sviluppo sociale, riunito intorno al Global Forum ribattezzato poi Genoa Social Forum, e, ancora una volta pronto a far sentire la propria voce agli otto potenti del mondo, riuniti a Palazzo Ducale, storica sede dei Dogi. Si crea, innalzando alte barriere di metallo, una linea di separazione materiale e insieme psicologica tra i capi di governo dei paesi più industrializzati del mondo, giunti a Genova per discutere del presente e del futuro economico del pianeta, e i manifestanti e la gente comune, ossia una zona rossa di protezione degli otto capi di stato, agitando preventivamente lo spauracchio della violenza, addirittura facilitandone l’esplosione, per screditare il Movimento stesso agli occhi dell’opinione pubblica, sia italiana che mondiale. Ecco che il Movimento sembra essere subito diventato prigioniero di una simmetria perversa: a Seattle come a Genova passando per Napoli e Goteborg, quella di libertà e violenza, quasi a voler affermare che, paradossalmente, non sia più possibile concepire il dissenso globale in un mondo globalizzato. Il resto è storia, ma anche cinema, grazie alla enorme quantità d’immagini girate intorno a quell’evento. Su tutte aleggia come un’ombra inquietante, quella del corpo senza vita del giovane Carlo Giuliani, ucciso a bruciapelo dal carabiniere Mario Placanica. Negli anni successivi, le voci internazionali di dissenso come quelle di Susan George, Naomi Klein, Paul Ginsborg, Antonio Negri, per citare solo le più note, si moltiplicano, pur tuttavia restando quasi sempre inascoltate. Il Movimento ha compreso che se la globalizzazione è un fenomeno inevitabile in questa fase storica, allora è giusto che essa lo sia per i diritti di tutti gli uomini, per le culture e le loro diversità. Per tutto l’arco delle sue attività di critica al sistema ma anche di costruzione teorica e pratica di quel “mondo più giusto”, che oggi ci appare sempre più lontano, durate quasi un decennio (1999-2009), questo grande Movimento (l’ultimo del XX° secolo), nato dal basso ed estraneo alle logiche dei partiti politici, pur essendo squisitamente etico-politico nella sua essenza, e forse proprio per questo, ha finito per ridimensionarsi e, in seguito, esaurirsi per stanchezza e difficoltà ad ottenere ampi consensi internazionali nelle diverse sfere pubbliche e private.
2021: niente è cambiato in positivo circa le sorti del pianeta, con i nuovi e tragici flussi migratori, la pratica del consenso in qualsiasi ambito culturale e sociale, elevata a sistema neo-conformista e l’informazione digitale sempre più arbitraria e incontrollata, ma oggi abbiamo compreso che anche un’epidemia, oltre che mortale può essere globale. Diffusa in corsa dal passaggio di persone da Oriente a Occidente e viceversa in nome del mercato e del profitto, sembra non avere più limiti geografici. A nulla valgono i confini e i muri tanto cari ai sovranisti di tutte le specie. Se il virus, dunque, è globale, la cura (il vaccino) dovrà esserlo altrettanto, pensando ai diritti di tutti, dalle fasce di cittadini più fragili a tutti gli altri, dai paesi più ricchi a quelli più poveri. Ma se i cosiddetti “Big Pharma” (le multinazionali della salute) vendono criminosamente sottobanco i vaccini al migliore offerente, ecco che ci ritroviamo ancora di fronte all’annosa e insormontabile questione delle multinazionali, al confronto-conflitto tra un modello di economia sostenibile, e un altro, completamente, ma vorremmo dire anche cinicamente, fondato sull’interesse privato, che quel Movimento aveva strenuamente combattuto. E per una strana ironia della sorte, ritorna di stringente attualità il concetto di “zona rossa” o la necessità di istituire “zone rosse” per regioni, aree vaste o singole città, entrate nel linguaggio comune da quel fatidico 2001, soltanto che ora, siamo noi tutti quelli a stare dentro per un tempo, ogni volta stabilito dai governi, ma a chi, invece, il compito o il privilegio di starne fuori?…
N°: 27 del 17/03/2021