“Non cediamo alla paura. Non esiste solo la pandemia ed è falso chi vuol farci credere il contrario!”. Una conversazione con Miguel Benasayag

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

Per Miguel Benasayag, valgono le parole che Gilles Deleuze disse per Sartre: Benasayag non ha mai smesso di essere un modello o un esempio, è sempre stato aria pura per lo spirito, in ogni occasione, in ciascun momento. E basta leggere la sua ultima opera per comprenderlo: Cinque lezioni di complessità, edito in Italia da Feltrinelli.

In tempi così bui, ancora più oscuri a causa di decisioni discutibili e non sempre appropriate – oltre che per l’evento della pandemia in sé –, apprendere che il solo modo per uscire da un ristagno deprimente, da una condizione di passioni tristi perché dovute ad azioni senza orizzonte né scopo: il solo modo, dicevo, per riconquistare quel po’ di gioia di vivere che ci è stata sottratta è guardare alla complessità oltre l’istante del presente. Pensare, cioè, che esiste molto di più oltre al virus che ci attanaglia e al modo di amministrare l’emergenza. E, sulla base di ciò, diradare quel buio che, in tanti, vogliono far credere proibirà alla luce di tornare a splendere.

Quello di Benasayag è un pensiero forte, nel senso che non si abbandona a violenze od estremismi; ma cerca nella ragione e nel sano vivere sociale i fondamenti per sottrarre l’uomo dalla condizione di isolamento in cui tecnica, media, eventi storici e certa parte della scienza obbligano l’individuo a funzionare come una fredda macchina invece di vivere ed esistere.

Un grande pensiero, quello di Benasayag, positivo, che soprattutto i giovani farebbero bene a conoscere e a far proprio.

 

Prof. Benasayag, nel suo ultimo libro – Cinque lezioni di complessità – lei ci invita a considerare le cose in modo meno esclusivo, badando a tutto quello che c’è oltre l’hic et nunc e il singolo fatto. Come ci si può riuscire?

La complessità è davvero difficile da assumere, nella politica come nella vita, in termini di analisi, attuazione, decisione e prospettiva. Quello che occorre tenere presente, ad ogni livello dell’esistere, è che vi è molto di più rispetto all’istante che si vive. Un di più d’essere che non si conosce. E, proprio per questo, è necessario assumerlo come dato di fatto e tenerlo sempre presente. Non si tratta di ignoranza, di qualcosa di ignoto che deve restare così. La complessità va analizzata.

Questa della complessità potremmo considerarla una nuova teoria filosofica?

Non penso che la complessità sia una teoria. O, perlomeno, io non la concepisco come tale. La ritengo, più che altro, una realtà materiale. Non ultimo perché il mondo stesso è complesso di per sé, la realtà è complessa di per sé: due entità tutt’altro che semplici. Io sono convinto che il pensiero dialettico – di stampo hegeliano e marxiano – e positivista alla Comte non bastino più per capire come viviamo e il contesto nel quale operiamo. Per arrivare ad una piena comprensione del nostro mondo, del mondo di questi anni e di come, probabilmente, esso cambierà in futuro, è necessario assumere la complessità come dato fattuale.

Secondo lei i giovani riusciranno ad adottare questa nuova prospettiva di pensiero?

Io penso che i giovani di oggi, quelli non permeati da passioni tristi in senso spinoziano, assumono la complessità nei termini cui accennavo prima e lottano dentro di loro. Dirò di più: accettano anche la possibilità di non ordinare, ad ogni costo, la complessità. Al contrario di chi ancora applica il pensiero positivista e dialettico, i giovani preferiscono rendere visibile la complessità nella quale tutti noi viviamo, tentando di comprendere come trasformarla.

Questa pandemia, insieme ai provvedimenti che sono stati presi in modo più o meno uniforme su scala quasi mondiale, pensa ci lascerà una ferita che non si rimarginerà più?

Non c’è ferita che resti aperta per sempre. Di questo sono convinto. Ogni ferita ha la tendenza a chiudersi, a rimarginarsi. Tutt’al più rimarrà la cicatrice, che sopravvivrà nel nostro ricordo. Ma possiamo esser sicuri che essa non sanguinerà più. L’uomo è in grado di metabolizzare grandi disgrazie. E anche in questa situazione non sarà da meno. Ma è necessario vedere dove emergeranno nuove possibilità. Adesso bisogna fare una sola cosa: resistere, essere pazienti. E, soprattutto, non cedere alla paura, sentimento deleterio che ha come solo scopo quello di rompere i legami sociali che, al contrario, debbono rimanere ben saldi e vivi in noi.

Eppure i vari governi, chi più chi meno, nell’invitarci a stare attenti alle occasioni dove il contagio da virus potrebbe innescarsi, trasmettono un sentimento di paura misto a inquietudine anche attraverso i vari media.

Come diceva Spinoza, l’unica paura che paralizza l’uomo è quella della morte. Di fronte a questo c’è una soluzione: accettiamo ciò che esiste oggi, individuiamo gli spazi di possibilità concreta in cui è possibile la socializzazione. Cerchiamo di comprendere cosa possiamo fare al di là di questo momento oscuro. Iniziamo a pensare che non esiste solo il Sars-CoV-2, ma molto, tanto altro. E tutto questo non dobbiamo aspettare chissà quanto per scoprirlo e farlo nostro. Esiste già.

Come si fa a raggiungere questa convinzione, questo status mentale?

Faccio riferimento alla mia esperienza personale: avendo io vissuto la durissima esperienza della tortura durante la dittatura in Argentina, conosco la psicologia del carnefice che infligge sofferenza alla persona. E la si può sintetizzare così: “Per te che sei nelle mie mani e sotto i miei ferri, c’è solo questo istante di dolore. E basta. Non vi è nulla dopo. Non c’è stato nulla prima. C’è solo il dolore che provi qui ed ora e che io ti infliggo”. L’unica maniera che avevo per sopravvivere era oppormi a quella menzogna, ed insistere a pensare che certamente ci sarebbe stato un futuro. Mutatis mutandis, lo stesso occorre fare in questo momento. Non smettere di pensare che non esiste solo la pandemia. Chi vuole convincerci del contrario, afferma una falsità.

Nella società odierna, dominata da passioni tristi per l’appunto, che spazio c’è per l’interiorità?

Oggi si vive in una società nella quale l’interiorità è bandita. Anzi: quasi tutto va contro lo sviluppo dell’interiorità. Ormai l’uomo funziona più che esistere. Ed è una deriva che non dobbiamo più consentire. Una macchina funziona, non l’uomo. L’essere umano deve recuperare la sua dimensione interiore e ampliarla.

I ragazzi che, dopo le scuole, andranno all’università e sceglieranno un percorso di vita da realizzare, potranno recuperare questa interiorità così minacciata?

L’università, come ormai si è venuta delineando in questi ultimi decenni, è un posto dove si produce sapere utile, si sviluppano competenze che, per l’appunto, possono funzionare ed essere applicate. Personalmente dissento da questa impostazione. Credo che l’università dovrebbe tornare ad essere un luogo soprattutto di pensiero, dove i giovani apprendono a saper pensare e ad espandere la loro interiorità.

In che modo?

Ritrovando in loro stessi, nel loro animo, quella che Goethe chiamava l’affinità elettiva. Ognuno di noi ne ha una propria. Ebbene: è questa affinità elettiva che occorre individuare ed esprimere. I giovani debbono reimparare a trovarla ed esprimerla al meglio delle possibilità che hanno.

pierlu83

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