Città per le elites, città dell’uomo

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

Tra le molte disparità presenti nello sviluppo della società del mercato globale vi è certamente quella, peraltro non inedita nella storia europea, tra piccole e grandi città, o meglio, tra città metropolitane e piccoli e medi centri di provincia. Luogo d’elezione della civiltà occidentale, la città è da sempre riconosciuta come la rappresentazione materiale e insieme simbolica delle trasformazioni sociali ed economiche del proprio tempo. Tuttavia, mai come nella nuova era globale si era visto un divario così crescente tra la cosiddetta dimensione provinciale delle piccole città e quella cosmopolita delle metropoli. Me se intendiamo dare una prospettiva più ampia, in senso storico, al fenomeno, sarà necessario partire dall’immediato secondo dopoguerra, con la sistematica distruzione del mondo rurale contadino e di vasta parte del suo territorio naturale a favore dei nuovi insediamenti industriali, risultato di un processo di zonizzazione secondo il quale venivano stabilite aree limitrofe ai centri urbani su cui insistevano grandi appezzamenti rurali un tempo coltivati, destinate ad accogliere complessi industriali di diverse entità e dimensioni  (quelli più specificamente commerciali avrebbero occupato, invece, le direttrici viarie provinciali di collegamento tra le varie località), perlopiù definibili come scatoloni a cielo aperto senza nessun attinenza con l’ambiente circostante e privi di qualsivoglia dimensione estetica, anzi, delle vere e proprie brutture edilizie, tuttavia destinate a servire l’orgoglio imprenditoriale di una generazione uscita dalla guerra e da una cultura in prevalenza contadina. E poichè le città al loro interno, erano ancora ingombre di vecchi opifici e di stabilimenti industriali, retaggio di una rivoluzione tardiva che aveva dato, inizialmente, i suoi frutti soprattutto nelle aree urbane del nord ovest italiano, si procedette alla lenta ma inevitabile sostituzione dei manufatti industriali che per decenni avevano generato ricchezza e lavoro con altri di qualità inferiore se non addirittura infima, adatti alle nuove esigenze del consumo di massa. Si trattava di un processo che sotto l’egida della cosiddetta riqualificazione urbana (oggi sostituita dal termine improprio di rigenerazione), tendeva, ieri come oggi, negando qualsiasi sforzo di progettualità sostenibile capace di ricucire tra loro pezzi di città lasciati per decenni al proprio degrado, a sostituire il vecchio regime produttivo con la grande distribuzione commerciale, e, infine, facendo, nella maggioranza dei casi, una vera propria tabula rasa di ogni testimonianza tangibile del passato industriale. Come, ad esempio, sta avvenendo nella ricca Varese, con l’antico sedime della storica fabbrica di aeroplani Aermacchi, il cui avanzato stato di abbandono indirizza la proprietà attuale verso un progetto in linea, non solo con quanto si è detto finora, ma, paradossalmente, con le direttive del nuovo Pgt che prevede nella suddetta area la costruzione di grandi complessi commerciali, come se non ce ne fossero già abbastanza in quello stesso comparto. In altre parole, nel drammatico vuoto di idee e in una totale assenza di progettualità urbana sostenibile e, finanche, di un’etica del costruire su vecchi sedimi, si vorrà procedere, nella città giardino lombarda come altrove, all’accumulo indiscriminato non tanto di nuove architetture, ma di “opportunità di investimento e profitto”. Nel primo caso, il concorso tra grande imprenditoria commerciale e imprenditoria sportiva parrebbe, piuttosto, costituire un alibi fin troppo scoperto allo scopo principale dell’operazione. In realtà, ancora una volta, come a voler rispettare un perverso e inevitabile protocollo nazionale, politici, media e gran parte dell’opinione pubblica finiscono per appiattirsi sulle ragioni degli investimenti privati, i soli, in grado di garantire fattibilità e velocità di realizzazione di progetti urbani, spesso senza interrogarsi sulla compatibilità con l’ambiente circostante. Ma se tutto questo sembra essere una prerogativa delle piccole e medie città dove spesso le logiche dell’investimento sicuro e del profitto inibiscono anche i pochi tentativi da parte di professionisti qualificati come architetti e urbanisti, (anch’essi  guardati con sospetto in quanto portatori di un pensiero tecnico e insieme critico), di ripensare la città con progetti integrati, nelle città metropolitane, invece, si concentrerebbero tutte le risorse finanziarie e professionali di qualità, sorta di centro di produzione di idee (con davanti il modello della Silicon Valley californiana), da immettere su un mercato avido di novità e che parla ormai una lingua globale senza più confini. A tale fenomeno delle cosiddette smart city e delle loro potenzialità di sviluppo illimitato, si connette, come ovvio, l’emergere di un nuovo sviluppo demografico: la metropoli come luogo blasè, dove le elites si incontrano per definire progetti e per consumare il tempo libero, fruendo della grande proposta di istruzione universitaria e specialistica oltre a una vasta rete di intrattenimento culturale che soltanto le metropoli sono in grado di soddisfare. In realtà stiamo parlando della città di Milano, la sola tra le grandi città italiane che non solo non abbia subito un calo demografico rilevante, ma che, al contrario, abbia, nell’ultimo decennio, incrementato il numero dei propri residenti. In essa, assai prima della pandemia che, nel tempo, forse ne cambierà gli assetti, sono piovuti a cascata investimenti di grandi società multinazionali, assicurative, bancarie, perfino dello stato del Qatar, che, con il beneplacito delle autorità comunali, si sono spartiti il territorio, o quanto di esso rimaneva e ancora oggi rimane libero da altri vincoli ambientali o paesistici, innalzando monumenti di vetro, acciaio e cemento alla propria onnipotenza finanziaria, ad un potere sempre più volatile e per questo più insidioso, inventando dal nulla, con l’ausilio di architetti di fama internazionale (le cosiddette archistar) la nuova Milano verticale, quasi si trattasse di New York o di altre metropoli americane, presentata dalla pubblicistica come luogo di socializzazione, in realtà esclusivamente finalizzata al consumo. Se soltanto pensiamo alla storia milanese con la rete di canali navigabili, i Navigli, ritroviamo le tracce tangibili della sua essenza urbana che è squisitamente orizzontalità. A questo punto, sembra proprio che la città si candidi a diventare un contenitore infinito, a disposizione del miglior offerente-investitore, che puntualmente ottiene il plauso del pubblico e di una politica compiacente, nella quasi totale mancanza di voci critiche e dunque, fuori dal coro. In una tale prospettiva di città d’eccellenze, in grado di assorbire le menti e i talenti più vivaci e brillanti (attivi nella moda, come nel design, nell’editoria come nel terziario tecnologico digitale), viene quasi subito naturale pensare ad un progressivo impoverimento o ad una marginalizzazione di tutte quelle aree urbane escluse dall’influenza milanese. Inoltre, il baratro apertosi, più in generale, tra una minoranza sempre più ricca e una massa popolare impoverita, ha avuto una propria rappresentazione, non solo nel rapporto tra centro e periferia, ma, appunto, tra città-metropoli e provincia allargata. In altre parole, se lasciamo che passi un tale modello di pensiero dominante, manicheo, che sembra voler dire che non vi sia alternativa tra il tutto e il nulla, (adombrando quella perdita di centralità di una classe media che costituiva un vero asse d’equilibrio, sia economico che culturale), finiremo per negare la vera natura plurale dello sviluppo dell’urbanesimo italiano, che definiva una rete di relazioni tra i singoli comuni ciascuno con una propria identità e una propria rilevanza. Pensiamo ad esempio, ad una città come Genova (ma ce ne sarebbero molti altri), alla valorizzazione delle sue molte e notevoli risorse utili non solo per sè ma anche per coloro che non risiedono all’interno della sua area metropolitana. Bisognerebbe imparare a cercare dentro di sé e nella propria città o territorio di appartenenza, le risorse necessarie, materiali e intellettuali, per rendere i luoghi più vivibili, più aperti a una maggiore sostenibilità ambientale, per avviare un dialogo paritetico e più proficuo con le metropoli, e, in altre parole, raggiungere quale legittimo risultato, quella gioia di vivere e di abitare che oggi sembra voler essere negata all’uomo, al cittadino, a favore di un inarrestabile processo di degrado sociale, culturale della polis e della civitas.

Con l’esplosione della pandemia che ha colpito duramente tutte le più importanti aree industriali del nord e non solo quelle, si è assistito, invece, a un’improvvisa quanto inattesa fuga dalle grandi città (come era già avvenuto negli anni settanta del secolo scorso), verso le zone lacustri, ancora oggi, ma in minor misura rispetto al passato, luoghi di villeggiatura, o in piccole città, quasi a voler cercare un riparo dal veloce propagarsi del contagio epidemico, che ha perfino evocato memorie letterarie di antiche pestilenze. Ma è soprattutto un altro fenomeno, quello del cosiddetto smart working, ossia del lavoro a distanza o da remoto, come ci si picca di dire, in un “altrove” connesso, ma alternativo e più economico, (rinnovando così i modi della lingua italiana), a porre seriamente in discussione il significato che si era voluto dare alla smart city come luogo d’elezione dove “avvengono i fatti e si materializzano le idee”. Non troppo diversa dalla grande città del boom economico novecentesco, foriera di occasioni e di speranze per tutti, ma al tempo stesso più cinica e spietata, in quanto ormai incapace di guardare al di qua dell’orizzonte illusorio del mercato globale e delle sue lontane latitudini. Qualcuno, di recente, ha scritto che in un futuro assai prossimo, naturalmente oltre la pandemia globale, l’incontro tra la gente metropolitana fuggita dalla città e gli ambienti della provincia produrrà nuovi frutti, rendendo migliori sia le metropoli che la provincia, dove si continua a spacciare per verità il fatto che oltre la globalizzazione e suoi interpreti, ma potremmo dire anche accoliti, non vi sia altro che noia e alcuna possibilità di progresso…

Ma di che cosa, davvero, stiamo parlando?….

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