– di EDOARDO CRISAFULLI –
È vero che la Chiesa di Bergoglio, nella sua ansia di conformarsi allo spirito dei tempi, si sta allontanando dalla verità di Dio? Aurelio Porfiri e Aldo Maria Valli rispondono di sì, senza esitare – Decadenza, ed. Chora, 2020. I tradizionalisti cattolici li seguono a ruota, senza porsi il problema della gravità dell’accusa, peraltro pessimamente argomentata. Illuminante la prefazione a quel libro di Marcello Veneziani (“L’autunno della Chiesa”), intellettuale nient’affatto tenero nei confronti di Papa Francesco, cui mancherebbero, addirittura, “l’aura del sacro, il carisma religioso, la grazia del santo Padre”, ovvero tutti gli attributi di un pontefice! (“Se il Papa fa il presidente dell’ONG”, Il Borghese, settembre 2017).
Per i cattolici di sinistra la risposta, ovviamente, è un no secco. Anch’io, socialista e non credente, rispondo di no. Commetteremmo un errore politico, noi laici, se ci disinteressassimo delle questioni religione. Sono duemila anni che l’interpretazione dei Vangeli ha forti ricadute politiche: perché lasciare campo libero agli intellettuali reazionari della risma di un Magdi (Cristiano) Allam, che vorrebbe riesumare le crociate anti islamiche? Il loro obiettivo è spingere la Chiesa verso posizioni retrograde, anti illuministiche, nella speranza che ciò porti acqua al mulino della destra xenofoba e sovranista. Noi, all’opposto, abbiamo questo compito politico: sostenere il modernismo e il dialogo interreligioso, entrambi frutti di quello straordinario evento che fu il Concilio Vaticano II. La destra illiberale vuol costruire steccati, e seminare zizzania, noi vogliamo ponti e concordia.
Da che mondo è mondo, l’eretico è sempre stato colui che ‘sceglie’ autonomamente la lettura evangelica che gli è più congeniale. È assurdo, quindi, accusare un papa di eresia allorché esercita le prerogative legate al suo magistero. Com’è noto, la dottrina del libero esame è protestante; nel cattolicesimo spetta ai vertici della Chiesa decidere la retta interpretazione dei testi canonici – in materia dottrinale e di fede il papa è infallibile. Primo paradosso: i cattolici conservatori talora assomigliano agli odiati luterani: mettendo sulla graticola papa Francesco ne minano l’indiscutibile autorità, vorrebbero ripristinare l’autocrazia d’altri tempi, ma per ottenere questo obiettivo (velleitario) si comportano da rivoluzionari o anarchici, fatto che rende insensato il loro elogio dell’autoritarismo: il papa ha sempre ragione, anche quando non sei d’accordo! Altrimenti dove finisce il dovere sacrosanto dell’obbedienza? (Perinde ac cadaver, dicevano i gesuiti…). Secondo paradosso: i progressisti, che sono inclini a mettere in discussione il potere costituito e le tradizioni, sono i più rispettosi verso l’autorità papale per il semplice fatto che Bergoglio è in perfetta linea con il modernismo del Concilio Vaticano II. È facile rispettare chi è in sintonia con i valori in cui credi.
Una domanda che comincia con un ‘è vero?’ è impegnativa: il concetto di verità è forse il più controverso di tutta la filosofia. Ricorriamo dunque ai rudimenti dell’ermeneutica, la scienza dell’interpretazione. Umberto Eco ci ha insegnato che è possibile distinguere fra affermazioni veritiere, opinioni e falsità. Possiamo credere in una sorta di verità ‘debole’, minimalista, per così dire, senza per ciò esser dogmatici assertori di un’unica verità assoluta. Secondo Eco, questo nucleo di verità – che lui definisce ‘intenzione’ – è senz’altro identificabile nella tipologia di testo di cui ci occupiamo qui (opere religiose, filosofiche, politiche ecc.). L’esistenza di una intenzione testuale ben delineata non esclude ovviamente una pluralità di interpretazioni. Se sostengo che in Marx la teoria rivoluzionaria del salto dialettico convive con una concezione evoluzionistica del socialismo, propongo un’interpretazione, più o meno plausibile, del suo pensiero. Se invece sostengo che Marx, a fine carriera, abiura il suo anticapitalismo, divenendo un apologeta del padrone sfruttatore, dico – evidentemente – una fesseria. Allo stesso modo, sarebbe scorretto attribuire a Montesquieu – colui che teorizzò la necessità dell’equilibro dei poteri giudiziario, legislativo ed esecutivo – la paternità politica delle dittature novecentesche, la quale appartiene in solido a Marx e Lenin (costoro esaltavano la dittatura del proletariato, sminuivano le libertà borghesi, disprezzavano il cretinismo parlamentare).
Non v’è dubbio sul fatto che alcuni passi dei Vangeli siano interpretabili in molteplici modi. L’affermazione di Gesù sul matrimonio, «ciò che Dio congiunge, l’uomo non separi» (Matteo 19, 8) – il cui senso è completato dalla frase ambigua “chiunque ripudia sua moglie, se non in caso di pornéia, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Matteo, 19,9 – è intesa in due sensi diametralmente opposti: dai cattolici come ingiunzione sull’indissolubilità del matrimonio, e dai protestanti come giustificazione del divorzio, purché vi sia infedeltà coniugale (questo sarebbe il senso di pornéia). Chi ha ragione? Questione di punti di vista, direbbe qualcuno. Se invece, diceva argutamente Eco, Jack lo squartatore avesse detto di essersi ispirato a Cristo – perché scannare prostitute è coerente con lo spirito evangelico –, solo un folle avrebbe considerato legittima la sua interpretazione. I Vangeli, pur con le loro linee d’ombra e contraddizioni, non vogliono dire tutto e il contrario di tutto.
Si può dissentire dalla linea politica che Papa Francesco ha impresso al suo pontificato. Ma che essa segni un allontanamento dai Vangeli è insostenibile. Ecco l’atto d’accusa: la Chiesa di Bergoglio, dedicandosi prioritariamente ai temi sociali, avrebbe ridotto il cristianesimo a “soccorso umanitario e centro d’accoglienza” (Veneziani, “L’autunno della Chiesa”). Una Chiesa caritatevole, vicina ai poveri, agli ultimi, tradirebbe la predicazione di Cristo! Una sola, memorabile, citazione coglie in fallo i cattolici tradizionalisti a digiuno di esegesi scritturale o in malafede: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (Matteo 22,37-40) Gesù, qui, ci insegna cos’è la Caritas, la fiamma di quell’amore disinteressato che, bruciando ogni egoismo, ci induce a stendere la mano ai profughi, ai derelitti, ai sofferenti, ai poveri. (N.B. Secondo la dottrina cattolica, la carità è una delle tre virtù teologali, le altre due sono la fede e la speranza.)
Intendiamoci: il collegamento di queste parole con la politica non è né immediato, né lineare. È più che legittimo – da un punto di vista laico, secolare – contestare l’accoglienza indiscriminata di immigrati. Il politico democratico deve compiere scelte dolorose, stabilire priorità, render conto al proprio elettorato. Inammissibile, invece, è mettere in dubbio l’autenticità della fede di Papa Francesco in una prospettiva cattolica. Quale pontefice potrebbe dire ‘è moralmente lecito sbarrare i porti, e respingere gli immigrati che vagano in mare?’ Invito a una rilettura meditata della parabola del Buon Samaritano, un qualsiasi parroco di campagna è in grado di enuclearne il senso primordiale; l’intenzione testuale è manifestamente chiara: nel tuo cammino ti imbatti in un bisognoso? Se sei un vero cristiano lo aiuti, c’è poco da discutere. Lo fai a prescindere da qualsiasi considerazione (il colore della pelle del malcapitato, la sua identità etnica, il suo ceto sociale ecc.). A meno che tu non sia un nazista, ma a quel punto non saresti un cristiano. Ergo: le tue opinioni politiche qui non c’entrano nulla: sia il cristiano conservatore che quello progressista dovrebbero sentirsi in obbligo di soccorrere il povero disgraziato della parabola, derubato e bastonato dai ladri. E invece Veneziani, che pure è un filosofo di formazione, è convinto del contrario: la Caritas è troppo assurda per essere il cuore pulsante del cristianesimo. Nella Chiesa di Bergoglio, “prevale la logica di preferire i lontani ai vicini, i diversi ai simili, gli stranieri ai compatrioti, i non cristiani ai cristiani. Una logica contro la realtà, contro la natura delle relazioni umane, contro l’indole degli affetti e delle consonanze, contro ogni senso comunitario.” Parole sacrosante! Veneziani, suo malgrado, ci dà una stupenda definizione della Caritas: Gesù è un rivoluzionario perché il suo amore per l’umanità è innaturale, sconvolge consuetudini e aspettative. È un amore sconfinato, totalizzante, che annulla l’ego e ogni pretesa di reciprocità. Sì, è vero: sacrificarsi per gli sconosciuti o per i propri nemici contraddice quell’impulso congenito che da sempre ci spinge ad associarci ai nostri simili. È difficile resistere a questa tendenza egoistica: ricaviamo tanta sicurezza dalla forza intrinseca della consanguineità, dell’amicizia, dell’appartenenza alla medesima comunità. Com’è facile voler bene alla tua famiglia, ai tuoi vicini, ai tuoi amici, ai tuoi compatrioti! È il lontano/diverso da te che suscita diffidenza, antipatia, o rifiuto. È costui che dovrai amare, contro ogni impulso ancestrale. Non c’è dubbio sul fatto che Gesù ci ingiunga di superare la logica naturale del gruppo coeso, che fa parte per sé stesso. «Sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera » (Matteo 10, 34-36) La comunità autosufficiente, pronta a tirar fuori gli artigli in funzione difensiva/aggressiva, è la principale causa della discordia, della discriminazione, dell’odio, delle guerre. L’egoismo può degenerare facilmente in un fatto sociale: aiuto, sì, il mio vicino italiano o ariano; che lo straniero s’arrangi o crepi. Anzi, potrei andar oltre, e schiavizzarlo, sfruttarlo, affinché la mia nazione possa prosperare a scapito della sua. Il nazionalismo e le avventure coloniali nascono da questa distorsione morale. Ecco perché il cristianesimo si pone un obiettivo che è al tempo stesso di natura morale e politica: sradicare la xenofobia. Quel po’ di filosofia politica che si desume dai Vangeli è compatibile unicamente con il cosmopolitismo, l’internazionalismo, la filantropia universale. Siamo tutti fratelli in Cristo: non esistono né frontiere, né barriere etniche e sociali che possano dividere l’umanità.
Stiamo attenti però, noi progressisti, a non cadere nello stesso tranello dei conservatori: vi è più di una declinazione politica del cattolicesimo. L’importante è che in tutte risplenda un raggio caritatevole. Non vedo perché un cristiano non possa preferire ‘aiutare gli immigrati a casa loro’, se davvero coerentemente si adopera in tal senso, prima che le imbarcazioni solchino il mare: l’importante è il fine dell’azione politica, non il mezzo. Certo non puoi dirti cristiano se osservi i profughi annegare in mare con olimpica indifferenza. Il fatto che tu, politico del Ventunesimo secolo, faccia stampare sui cartelli elettorali lo slogan “prima gli italiani” è più che legittimo, e non ti qualifica necessariamente come un criptonazista. Tuttavia se poi tu, dopo aver stabilito certe priorità nell’allocazione dei fondi nazionali, non ti impegni concretamente nella cooperazione allo sviluppo, contro la povertà globale, quello slogan, ripetuto con insistenza martellante, ti pone al di fuori del nucleo della visione cristiana. Non scriverei queste cose se sul nostro palcoscenico politico non si agitassero sedicenti ‘autentici cattolici’ che, tra un rosario e l’altro, incitano al disprezzo verso i musulmani, gli immigrati, gli omosessuali. Costoro, pur di raccattare voti, usano politicamente l’identità cristiana per emarginare chi è diverso da noi.
Come amava ripetermi il mio maestro Luciano Pellicani, autore delle Radici pagane d’Europa: ‘noi laici dovremmo ricordare sempre che la civiltà classica ci ha tramandato il culto della ragione, la filosofia, e con questa l’idea di libertà politica e civile; il cristianesimo ci ha donato la Caritas, cioè l’idea rivoluzionaria, di matrice ebraica, per cui l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Senza il seme della Caritas il fiore del socialismo non sarebbe mai sbocciato. Sia chiaro, però: non possiamo dire che tutte le politiche di sinistra siano di per sé cristiane. Si pensi all’elemosina di Stato nota come salario di cittadinanza, politica sbagliata laddove ne beneficiano giovani abili al lavoro, ma sfaticati: Gesù non parla solo di diritti, ma anche di doveri. Si rilegga a questo proposito la Parabola dei Talenti, che si può a mio avviso intendere come un completamento della Parabola del buon Samaritano, ovvero come un invito a esprimere fino in fondo le proprie capacità, a fin di bene. Se Dio ti ha donato l’intelligenza, non sprecarla! Partecipa attivamente alla vita della tua comunità. Perché se ci sediamo tutti, mano tesa, non ci sarà nessuno in grado di guadagnare il denaro che va redistribuito equamente.
Efficace la massima, attribuita a Sandro Pertini: “il cristianesimo di mia madre mi ha insegnato ad amare i poveri, il socialismo a difenderli”. Ecco cosa significa tradurre in termini secolari, immanenti, il sogno egalitario dei Vangeli: organizzarsi politicamente, usare talora anche la forza per difendere i proletari e combattere i privilegi. E qui, in un certo senso, siamo noi socialisti a uscire dall’alveo cristiano, che conduce alla trascendenza. Gesù non pensava che il suo Regno fosse di questo mondo, e invece noi è proprio qui che vogliamo vivere meglio. Poi, emesso l’ultimo respiro, si vedrà.
Questa vicinanza naturale fra cristiani e socialisti spiega ciò che per Veneziani è incomprensibile: “i cattolici progressisti si sentono più vicini ai progressisti non cattolici che ai cattolici non progressisti; ossia per loro è fondamentale l’essere progressisti, e accessorio l’essere cattolici e credenti.” Dispiace che un intellettuale preparato, e talora molto acuto, dica sciocchezze del genere. I cattolici progressisti (o, meglio, di sinistra) si sentono naturalmente vicini a coloro che credono nella solidarietà, laici o religiosi non importa. Anche quando è secolarizzata, la Caritas serba l’imprinting cristiano. Ratzinger, il custode dell’ortodossia caro ai tradizionalisti, lo ha detto con candore e onestà: ci sono importanti punti in comune fra il socialismo democratico, non violento, e il cristianesimo sociale (Stefano Ceccanti “Lo sguardo del Cardinale Ratzinger sulla socialdemocrazia europea”, 23.4.2005, articolo online). Perché, allora, insinuare che i cattolici di sinistra possiedono una fede all’acqua di rose? Chi si allontana da Dio è semmai il cattolico che getta alle ortiche il concetto di carità, beandosi del fatto che conosce a memoria i salmi e le preghiere in latinorum. Ci ricorda, tale figura di credente, il Fariseo evangelico: così ligio all’osservazione esteriore della Legge, e così arido di cuore. Eppure Cristo fu chiarissimo: la Legge è stata fatta per l’uomo e non già l’uomo per la Legge. A che serve pregare Iddio, raccogliendosi spiritualmente in solitudine, se poi si ignora l’amore per il prossimo, la prima legge del cristianesimo?
Veneziani, tuttavia, pone una questione su cui dovremmo riflettere tutti. Ci sono due modi, talora contrapposti, di intendere la fede cattolica. Il primo incentrato sullo spirito rivoluzionario del cristianesimo, il secondo sull’osservanza delle tradizioni e dell’autorità ecclesiastica. Io, progressista, devo riconoscere che il messaggio di Cristo è stato veicolato anche dall’uomo di potere corrotto Bonifacio VIII, nonché dalla sequela interminabile di papi simoniaci che l’hanno preceduto e succeduto. Posso scandalizzarmi, ma tant’è: questa è la realtà storica. Per stare ai tempi nostri, o quasi: Pio XI condannò la fascistissima guerra d’Etiopia, in cui le truppe coloniali italiane usarono gas proibiti (vi morirono intorno ai 400.000 etiopi di fede cristiana coopta), ma in pubblicò tentennò per non compromettere gli ottimi rapporti con il regime mussoliniano. D’altro canto, che alcuni ambienti vaticani fossero guerrafondai e razzisti, lo si deduce dall’omelia che l’Arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster, tenne il 28 ottobre del 1935 (guarda caso, anniversario della marcia su Roma), nella quale invocò la benedizione divina per “l’esercito valoroso, che a prezzo di sangue apre le porte dell’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà’ romana” (Lucia Ceci, Il Papa non deve parlare – Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, 2010). Meno di un trentennio dopo sale al soglio pontificio Giovanni XXIII, il papa buono e ‘laico’, iniziatore del Concilio Vaticano II. Insomma, l’utopia non cammina con le sue gambe, ha bisogno di una Chiesa. E le Chiese, per definizione, tendono a essere conservatrici. Talora addirittura reazionarie. Devo ammettere, quindi, che la dialettica fra conservatori e progressisti assomiglia al rapporto ‘simbiotico’ fra i due poli della batteria: gli uni non possono esistere senza gli altri. Perché, allora, gli intellettuali schierati a destra non possono riconoscere a loro volta che la componente ‘progressista’ fa parte a pieno titolo della comunità ecclesiastica, in quanto tiene accesa la fiammella della Caritas, essenziale per la sopravvivenza della Chiesa nel nuovo millennio?
Ultima noterella: no, caro Veneziani, non è Papa Francesco a voler saltare a piè pari “duemila anni di tradizione cattolica, millenni di dottrina della Chiesa e di pensiero cristiano, migliaia di martiri, santi e testimoni della fede.” È il vento impetuoso della modernità che sta spazzando via tutto questo, insieme alla memoria storica delle nostre radici. Bergoglio altro non è che l’inveratore dell’opera di Giovanni XXIII, il primo pontefice a capire, quasi sessant’anni fa, che la Chiesa, per varcare la soglia del nuovo millennio, doveva assolutamente fare i conti con i tempi moderni, non già piegarsi alle mode del momento. Cari conservatori, votate per chi vi pare, lo sconvolgimento epocale cui assistiamo non è affatto l’autunno della Chiesa. Non so se il rinnovamento propiziato da Bergoglio preannunci una primavera ecclesiastica, ciò dipenderà anche dalla vostra disponibilità a dialogare con i vituperati modernisti/progressisti, i quali, mi spiace per voi, continueranno a votare a sinistra.