Omicidi politici e storiografia giudiziaria: una “contro recensione”, I

– di EDOARDO CRISAFULLI –

La recensione di Raffaele Liucci alla nuova edizione del saggio di Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, lascia perplessi (“L’Omicidio Calabresi e un processo divisivo”, Il Sole 24 Ore, 5.7.2020). Liucci imputa a Ginzburg di non aver delineato il contesto in cui maturò l’assassinio barbaro e insensato del Commissario Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972. Com’è noto, a ben 16 anni dal delitto viene arrestato l’ex esponente di Lotta Continua (LC) Adriano Sofri, inchiodato dalla confessione-testimonianza dell’ex militante di LC Leonardo Marino, il quale gli attribuisce il ruolo di mandante, ruolo condiviso con Giorgio Pietrostefani (l’esecutore materiale sarebbe stato un altro militante dell’organizzazione, Ovidio Bompressi). Il processo-calvario dura 12 anni e si snoda attraverso ben 14 sentenze. A seguito dell’estenuante e controverso iter giudiziario, Sofri (insieme con Pietrostefani e Bompressi) viene condannato in via definitiva a ventidue anni di carcere. L’omicidio sarebbe una vendetta politica ordita dai vertici di LC per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, il quale, nel dicembre del 1969, ‘precipitò’ misteriosamente da una finestra della Questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti in quanto sospettato di essere coinvolto nella strage di Piazza Fontana.

Il rilievo del recensore è bizzarro: Ginzburg, mente analitica di prim’ordine, ha scritto il libro che voleva scrivere: un j’accuse che smonta e decostruisce ciò che lui considera un castello di accuse infondate. L’impresa gli è riuscita brillantemente. Ginzburg chiarisce la differenza che corre fra le responsabilità (e le competenze) dello storico e quelle del giudice. Troppo spesso aleggia ambiguità nei processi che hanno per forza di cose risvolti politici. Il contesto, in questi casi, può rivelarsi un pendio scivoloso: fino a che punto allargare il campo visuale? Il contesto politico è un’attenuante o un’aggravante? Sono domande, queste, più da storico che da giudice. Il senso intellettuale, e direi anche etico-civile, del libro di Ginzburg sta proprio qui: il giudice che si atteggia a storico ha una cognizione ossessiva della realtà in cui è avvenuto il crimine, predisposizione mentale che può far deragliare il processo. Un garantista, più semplicemente, si concentra sulla madre di tutte le domande: la sentenza di condanna poggia su basi sicure oppure traballanti (= prove inoppugnabili)? Legittimo quindi circoscrivere la riflessione al processo, tenendo fuori valutazioni soggettive che sono irrilevanti per stabilire la colpevolezza di Sofri: guai se le responsabilità politiche e morali per aver partecipato a movimenti extraparlamentari durante gli anni di piombo si trasformano in capi d’imputazione penali, peraltro a distanza di decenni. Né abbiamo bisogno dei magistrati per valutare criticamente il percorso di Sofri in quel periodo rovente. Si vogliono comprendere sine ira ac studio le dinamiche politiche, le tensioni sociali, nonché le scelte discutibili di alcune personalità immerse nel fluire di eventi burrascosi? Beh, allora si rispettino due requisiti: il ricorso a una solida metodologia e… un pizzico di onestà intellettuale! Il tribunale della storia emette sentenze molto diverse da quelle dei tribunali: la condanna o assoluzione di questo o quel leader è un giudizio politico da cima a fondo, non è assimilabile a un verdetto giudiziario. Nel caso dei processi postbellici ai nazisti, il tribunale della storia si è allineato (fino a sovrapporsi) ai tribunali istituiti dalle potenze vincitrici. Ma questo è un caso eccezionale.  In genere è buona prassi uscire dal cono d’ombra delle sentenze giudiziarie: queste possono costituire un interessante oggetto d’indagine in sé, in quanto ci restituiscono i fatti visti attraverso le lenti del magistrato. Le sentenze però non costituiscono l’unica (sacra) fonte della verità storica. I processi di Mani Puliti sono esemplari da questo punto di vista.

Ovvio che il contesto del delitto Calabresi rimarrà sempre un brusio in sottofondo, spetta a noi far sì che non diventi un rumore assordante. Negli anni Sessanta e Settanta di violenza ce n’è stata fin troppa, di certo non mi ergerò a paladino dei cattivi maestri che l’hanno rinfocolata.  Come ignorare le affermazioni inneggianti alla violenza contro lo Stato capitalistico che Sofri pronunciò al Convegno di Lotta Continua di Rimini (1972)? Sono lontane anni luce dalla sensibilità di un riformista quale io sono – sicché le condanno senza mezzi termini. Il che, lo confesso, mi riesce facile: all’epoca, avendo 8 anni, giocavo con i soldatini; e da quando ho raggiunto l’età della ragione, eravamo già negli anni Ottanta del secolo scorso, ho militato solo in partiti dell’arco costituzionale che hanno bandito la fraseologia e la prassi rivoluzionaria/violenta.

Se indossiamo i panni dello storico anziché quelli del giudice, noteremo fatti imbarazzanti che mettono in crisi le letture semplicistiche: lo Stato democratico ha compiuto alcune azioni repressive violente sulla cui legittimità etica ed opportunità politica ci sarebbe molto da discutere. Pochi giorni fa, il 7 luglio, cadeva il sessantesimo anniversario della strage di Reggio Emilia (1960): cinque pacifici militanti comunisti, durante una manifestazione sindacale, vengono uccisi dalle forze dell’ordine. Per non parlare, poi, delle responsabilità dei servizi segreti deviati nelle stragi neofasciste che hanno insanguinato l’Italia. Un male non ne giustifica moralmente un altro, per ritorsione. Un male, però, può generarne o spiegarne un altro, per concatenazione logica.  Ribadisco, dunque, a scanso di equivoci: io apprezzo il leader socialista Craxi che in quegli anni condannò l’estremismo violento, in Parlamento, negli scritti e nei comizi. Per principio, mi schiero dalla parte dello Stato liberaldemocratico. Tuttavia se figure dello Stato sbagliano, addirittura con dolo, non le assolvo né le giustifico, quali che siano le loro motivazioni politiche. Nessuno è al di sopra delle leggi e della Costituzione. Come ci ricorda Ugo Intini, nella concezione umanistica del socialismo lo Stato non è il fine ultimo della politica, né è un valore assoluto in quanto realizzerebbe il bene universale (= Stato etico): esso è solo un mezzo imperfetto per assicurare la vita e i diritti dei cittadini (= Stato laico e liberale). La vita viene sempre prima della Ragion di Stato (“Delitto senza castigo”, Mondoperaio, 6, 2020, pp. 31-34). Fine della diatriba sul contesto storico.

Torniamo al punto dirimente della questione, così come la imposta Ginzburg: è giusto che i cattivi maestri siano condannati in processi penali per fatti che non hanno commesso solo perché all’epoca erano fautori della violenza politica? È accettabile che un leader politico sia considerato il mandante di un omicidio di cui è, semmai, corresponsabile solo moralmente? Può la condanna basarsi unicamente sulla testimonianza e chiamata di correità di un pentito? Chi risponde di sì, in cuor suo desidera processi politici e crede nella perseguibilità del reato d’opinione. Si annusa l’aria viziata di una resa dei conti postuma con i protagonisti dell’epoca della Contestazione globale… I garantisti, schiera alla quale mi onoro di appartenere, non possono che rispondere con un no secco: la verità processuale accerta le responsabilità penali dell’imputato e null’altro. L’accertamento di quelle politiche e morali spetta al Parlamento, agli elettori, agli intellettuali, alle chiese. Così dovrebbe essere, così è negli Stati costituzionali di diritto. A questo punto, bisognerebbe leggersi sia il libro di Ginzburg che gli atti del processo. I giudici hanno ritenuto Sofri colpevole, è giusto sentire anche la loro campana. Qui mi limiterò a sostenere le tesi di Ginzburg a livello teorico, cioè quali insegnamenti validi in generale, a prescindere dal caso specifico.

         Liucci, sensatamente, sembra distinguere fra valutazione politica e verità processuale. Pur criticando i teorici della violenza antisistema, egli riconosce “la natura indiziaria del processo Calabresi, celebrato in una sede – il tribunale di Milano – non particolarmente bendisposta verso gli imputati”. Come si possa, pensando questo, concordare con i giudici è un mistero. Tutti hanno il sacrosanto diritto di schierarsi, ci mancherebbe. Trovo però inopportuna la chiusa della sua recensione, che è – credo volutamente – ambigua. Questa è una pecca grave, data la complessità e delicatezza del tema: “Chissà, forse parlando di Calabresi con i suoi compagni, Sofri fece proprie le parole che nel 1944 avrebbe pronunciato l’archeologo comunista Bianchi Bandinelli partecipando alla discussione se assassinare Giovanni Gentile: ‘è un atto terribile, ma va fatto.’” Il passo si potrebbe interpretare nel senso di una critica di quei sovversivi rossi, i quali, negli anni Sessanta e Settanta, con aria di sussiego si autoproclamavano eredi della Resistenza, secondo loro tradita dai partiti ‘revisionisti’ della sinistra democratica e parlamentare. Se è così, perché non dirlo esplicitamente? Nessuno potrebbe contestarlo: è vero. L’ambiguità consente un’altra lettura: in filigrana si legge un’analogia etica e politica fra gli antifascisti che decisero l’assassinio di Gentile, fatto che avvenne durante l’occupazione nazifascista, e gli estremisti che decretarono la morte di un servitore dello Stato democratico negli anni della Repubblica postbellica. Una analogia fuorviante: una cosa sono i partigiani, un’altra i militanti invasati che, nell’Italia democratica, sparavano per uccidere. La questione Gentile meriterebbe un approfondimento. Non tutti i partigiani erano d’accordo sulla sua condanna a morte. Detto ciò, è innegabile che Gentile – pur dimostrando coraggio e coerenza – si schierò dalla parte di coloro che, alleatisi con Hitler e i suoi scherani, fucilavano senza batter ciglio antifascisti e renitenti alla leva, e si prodigavano affinché gli italiani di religione ebraica giungessero ad Auschwitz con la massima sollecitudine. Premesso che un processo ai gerarchi fascisti sul modello di quello tenutosi a Norimberga avrebbe fatto un gran bene agli italiani, mi domando: perché un filosofo fascista avrebbe il diritto di vivere, mentre si può troncare la vita a giovani contadini e operai colpevoli di non voler indossare la camicia nera?  Nessuna persona dotata di raziocinio può equiparare la Repubblica Sociale con la Repubblica democratica nata dalla Resistenza. In linea di principio, la violenza partigiana era moralmente e politicamente legittima perché mirava alla liberazione dal nazifascismo.

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