– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Nel rileggere con occhio critico il cinema di Nanni Moretti, ecco venirci incontro, nel film Palombella rossa, 1989, un Michele Apicella (alter ego del regista) comunista, in un momento di accesa riflessione: l’interrogativo era il seguente: che cosa significa, oggi, essere comunisti? E’ trascorso più di un trentennio e, forse, varrebbe la pena di riformulare la domanda, magari, con maggiore disincanto (senza, tuttavia, scadere nel facile cinismo), anche alla luce del pesante clima di restaurazione e di conformismo pre-sessantotteschi che, disgraziatamente, stiamo attraversando, tuttavia senza opporvi alcunché di sensatamente e concretamente di sinistra, sempre che questa definizione abbia ancora un qualche significato.
Negli anni della sua evoluzione storica, il Partito Comunista Italiano difese la propria unicità, la propria diversità rispetto all’altro grande partito di massa, la Dc, facendo scelte difficili, talora contestate e contestabili, con l’orgoglio di chi realmente voleva trasformare la società italiana, rendendola più laica e egualitaria, ma sempre nel rispetto delle regole della democrazia parlamentare. E dunque, dentro un più ampio progetto di cambiamento che, abbandonando definitivamente le teorie rivoluzionarie leniniste, risultava confacente più a un tipo di società liberal capitalista che a una società socialista.
Almeno tre sono le ragioni che bloccarono uno sviluppo più in linea con l’Internazionale Comunista: la consapevolezza dei limiti politici che imponeva l’appartenenza al Patto Atlantico e alla Nato (le cui ingerenze nella vita politica del nostro paese furono pesantissime, e in particolar modo in certi passaggi storici delicati come negli anni settanta del secolo passato), che in una società come quella italiana, divisa nettamente tra mondo cattolico (con l’enorme peso della presenza del Vaticano) e mondo laico, non vi fossero le condizioni per una governabilità comunista senza la presenza determinante dei cattolici. Infine, il progressivo venir meno della validità offerta dal modello di socialismo reale che in Unione Sovietica e negli altri paesi europei e asiatici aveva mostrato una deriva stalinista prima e successivamente, una burocratizzazione autoritaria dell’intero sistema, ma al tempo stesso, i limiti propri del cosiddetto capitalismo di stato. Insomma, se il vero comunismo come lo avevano inteso Karl Marx e Friedrich Engels, e nel senso della prassi rivoluzionaria, Vladimir Lenin, era lungi dall’essersi realizzato, non sarebbe stato di certo il Partito Comunista Italiano a farsene carico per il futuro. Al contrario, il progetto berlingueriano divenne inclusivo verso quel mondo tradizionalmente estraneo ai valori comunisti, a cui unì la questione morale, pervenendo, infine, ad un’ipotesi di socialismo democratico, senza per questo voler rinunciare alla propria origine comunista che, ancora, identificava nella falce e martello il proprio simbolo. E’ a questo progetto che si opposero, lungo un intero decennio, quanti credevano, invece, mossi anche dallo spirito di lotte che avvenivano in altre latitudini (il terzomondismo latinoamericano, ad esempio), di dover rivendicare, anche a fronte del pericolo effettivo di golpe fascisti, il ruolo delle cosiddette avanguardie comuniste (con una molteplicità di sfumature e differenze al proprio interno), ossia dei movimenti extraparlamentari che agendo sul territorio, trasformavano l’enorme potenziale di conflittualità presente nel Paese allo scopo di rovesciare il paradigma riformista.
Un elemento, però, univa il Partito Comunista e i movimenti ed era l’antifascismo, sebbene coniugato in modi diversi. Il primo, con metodo scientifico, concentrava nella grande fabbrica quella dialettica marxista fra prassi e azione, che fu soprattutto leninista, ma mediata da una ragion pratica ed un pragmatismo radicato nella specifica realtà italiana, mentre i secondi, facendone una militanza, spesso violenta, tendente ad accentuare quella conflittualità che alla fine avrebbe dovuto portare, almeno nelle premesse, al processo rivoluzionario. In un certo senso Lotta Comunista, il più longevo movimento della sinistra marxista-leninista e ancora attivo, era, paradossalmente, più simile al Partito Comunista, pur tuttavia non condividendo affatto la rinuncia al progetto rivoluzionario, e di conseguenza, l’appiattimento su posizioni socialdemocratiche, che non agli altri movimenti extraparlamentari come Movimento Studentesco, Lotta Continua etc. Ed è proprio all’idea romantica di rivoluzione, già attuata in diversi paesi, che continuarono a rifarsi i movimenti degli anni settanta e, in un certo senso, con isterica accentuazione, gli uomini e le donne della lotta armata. Negli anni settanta essere di sinistra era quasi un obbligo morale se si intendeva essere parte di un grande movimento di uomini e donne (come recita Moretti-Apicella, sempre in Palombella Rossa) il cui fine era quello di “cambiare il mondo”. Una lettura massimalistica che si sarebbe convertita in lettura pragmatica, più aderente alla realtà sociale e politica, ma soprattutto economica del Paese. La sinistra comunista, ma anche quella rappresentata dai socialisti di Pietro Nenni, esercitarono un’egemonia culturale estesa, che seppe influenzare in senso positivo la cultura di massa, anzi, perfino determinandone gli sviluppi successivi. Ciò avveniva nell’ambito del pensiero politico, ma anche nelle discipline sociali, nelle arti, nella musica e nella letteratura. Avanguardia e sperimentazione erano parole all’ordine del giorno. Ma soprattutto si esercitava quello spirito critico di matrice illuminista che, ad onore del vero, sembra quasi scomparso dal pubblico esercizio del pensiero. Ma ecco il retro pensiero morettiano: “Ma che cosa c’è che non va? Perché non possiamo diventare finalmente forza di governo? Abbiamo perfino accettato, come forza politica, che l’Italia faccia parte della Nato!” E poi il mantra: “Noi non siamo come gli altri ma siamo uguali agli altri, Noi siamo diversi ma siamo uguali…”. Quel monologo, di fatto, registrava la confusione e lo sgomento di non poter essere forza di governo, di fronte al dilemma su come conservare la propria identità di comunisti, scegliendo a poco a poco la via della socialdemocrazia, e, non lo si dimentichi, vivendo, pur sempre, in una società capitalista. E’ il paradosso dietro la cui ombra il Partito Comunista, pur trasformandosi nel dopoguerra in una grande forza politica, non ha saputo o voluto superare, o dare una risposta, forse per non pagare il prezzo di diventare minoranza. Ma la chiave risolutoria di questo dilemma è scritta nell’anno 1989 con la caduta del Muro di Berlino e nel 1991, quando l’Unione Sovietica, per implosione economica, cessò praticamente di esistere. Sorge, tuttavia un dubbio: se già esisteva una chiara equidistanza tra il partito di Berlinguer e il regime dell’Unione Sovietica, allora perché rinunciare per sempre al nome comunista, ossia alla propria origine? La ragione è semplice: se la svolta berlingueriana del cosiddetto eurocomunismo, ancora non aveva inteso porre in discussione i fondamenti della tradizione comunista, già dopo la sua morte, avvenuta nel ’84, non c’erano più le premesse perché si proseguisse su quella linea.
Nelle fasi successive, durante circa un ventennio, si è cercato in ogni modo di allontanarsi sempre di più da quella storia collettiva, dapprima eliminando dal nuovo nome la parola sinistra, successivamente la parola partito, fino a realizzare il sogno veltroniano (che una volta ebbe a dichiarare di non essere mai stato comunista) del partito all’americana, ossia i Democratici (d’ora in avanti, non più aggettivo ma sostantivo!). Non dirsi più comunisti, ovvero la giusta formula per continuare a essere un partito di massa, per potersi sentire maggioranza, essere, insomma, e restare, pur sempre, in una grande famiglia. In parallelo, bisognava che qualcuno storicamente riprendesse quell’eredità-identità, pur nell’assoluta consapevolezza che non ci sarebbe più stato in Italia né tanto meno in Europa, un grande partito di massa che portasse il vessillo comunista.
E alla prima scissione (con a capo due comunisti e un socialista) che generò il partito della Rifondazione Comunista, si capì subito che sarebbe stato un partito elitario, non di rado fazioso e settario. Pur non garantendo una continuità numerica (il suo apice elettorale fu il 7-8%), almeno assicurava di coltivare e incanalare una antica rabbia di movimento, giovanile e rivoluzionaria, disattesa con la debacle elettorale dell’allora Democrazia Proletaria, l’altro riferimento parlamentare di molti ex movimentisti, che già non si ritrovava più nelle file del Partito Comunista. In tal senso è esemplare il caso di Peppino Impastato, l’eroe delle masse giovanili di sinistra (o almeno quando dichiararsi di sinistra non generava sensi di colpa), che morì ammazzato durante una campagna elettorale dove si era candidato nelle file di Democrazia Proletaria e non in quelle del Partito Comunista. Se è vero che una scissione tira l’altra, ecco apparire fin troppo chiaro che l’anima movimentista di Rifondazione, rappresentata da Fausto Bertinotti e quella statalista da Armando Cossutta, avrebbero provocato un cortocircuito insanabile, fino alla rottura definitiva. Una scissione, anch’essa insanabile, c’era stata diversi anni prima, con la fuoriuscita di figure come Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luigi Pintor, fondatori del gruppo de “il Manifesto”, che con la testata omonima si qualificò subito come la “voce” politica e intellettuale più radicale ed engagè, oltre, ovviamente, ad entrare nella lunga lista dei “compagni che sbagliano”. Non è un caso, forse, che la definizione de il Manifesto come “quotidiano comunista” non venga vissuta, almeno dai suoi lettori, come un segnale di conservatorismo culturale e politico, ma, al contrario, come prolungamento naturale di una lunga storia politica, rispetto ai diversi micro-partiti che hanno, a loro volta, orgogliosamente mantenuto la parola comunista nel nome. Ciò è dipeso, dalla coerenza della linea politica del gruppo nell’opporsi fermamente allo stalinismo e al modello del burocraticismo sovietico. Ci troviamo, comunque, di fronte a un’identità fluttuante che, depositata in questa o in quella nuova compagine politica, si misura a sua volta con lo scorrere inesorabile del tempo. Mentre dal partito della Rifondazione (rifondare senza fondamenta, significa piuttosto rappresentare un’idea in quanto tale, illudendosi che sia vincente) si produceva un’ulteriore scissione quando all’indomani del congresso che lo mise in minoranza, Nichi Vendola, dichiarò di non voler morire all’opposizione, in altre parole, di non voler essere eternamente minoranza sconfitta. Tuttavia finì anche lui per essere sconfitto al primo cambio di nome del partito che da Sel (Sinistra Ecologia Libertà), (per la prima volta riaffiorava con orgoglio la parola sinistra, affinché non si rivelasse solo un sinistro presagio), diventò perentoriamente, Sinistra italiana. E mentre gli ex comunisti del Pci, dopo avere dismesso intere biblioteche marxiste e perfino resistenziali (qualche volta, però, salvando, ad esempio, come a Cavriago, Reggio Emilia, un busto di Lenin in bronzo), con qualche sparuta e auspicabile eccezione, si erano finalmente convinti che quello del capitalismo globale fosse il migliore dei mondi possibili, la democrazia parlamentare il miglior sistema, e la socialdemocrazia il saggio equilibrio tra le parti, cresceva entro sparute minoranze l’ansia identitaria di sentirsi comunisti e di dichiararlo apertamente in faccia a coloro che “non sanno più cosa farsene del comunismo”, il quale, a loro dire, sarebbe stato fin dal principio, un’illusione non troppo dissimile da una fede religiosa. Oltre vent’anni di berlusconismo, economia globale e ora anche, di neo-nazionalismo sovranista hanno certamente contribuito a logorare l’immagine del comunista, divenuto oggetto di disprezzo e di scherno, come si può facilmente cogliere, ad esempio, nella sequenza di un “cinepanettone” degli anni ottanta, in cui, dietro la scritta ironica di “a volte ritornano”, mostrava un manipolo di zombies comunisti con tanto di bandiere rosse al vento, e un’altra scritta sovrimpressa e sibillina: “pubblicità regresso”. Quasi che i “venti milioni di morti dei gulag staliniani, strategicamente esibiti senza un barlume di dialettica storica, ed equiparati alle altrettanto numerose di vittime della Shoah (è iniziata la conta comparativa, ma come legittimo esercizio di verità e giustizia?), debbano necessariamente ricadere sul comunismo italiano che, al saldo di meriti ed errori, ha contribuito alla rinascita civile e politica del paese. Quasi che si intenda infine comparare la caduta del comunismo con quella del fascismo, in un solo paese. E’ il paradosso delle false comparazione, dell’ipocrisia di masse sempre più ottuse che, mentre parlano di difesa della democrazia, sono pronte ad accogliere l’uomo forte e il suo regime prefabbricato, purché sia in nome dell’economia di mercato. Ma ci vuol sempre una fede laica per continuare a credere in ciò in cui si è creduto fin dalla gioventù!. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a uno strano processo di rovesciamento dei fronti. Dallo storico abbattimento della dittatura fascista, siamo passati ad una fase di golpe progressivo in cui, a cadere come dopo una dittatura, è stata l’egemonia culturale della sinistra, popolare e intellettuale, vecchia e nuova sinistra, in nome della nuova cultura, acritica e rassicurante, del neo-populismo globale, o se si preferisce, dell’individualismo di massa.
Ritorna, quindi, come un boomerang l’interrogativo morettiano sul senso che si vorrebbe dare oggi all’essere comunisti. Per i compagni di Lotta Comunista, ad esempio, conta soprattutto l’attualizzazione dell’analisi marxista-leninista, a fronte dell’esplosione dei nuovi conflitti, del progressivo allargarsi delle disparità sociali e il formarsi di un nuovo proletariato urbano, e, in altre parole, la riproposizione del paradigma della lotta di classe. Così è, forse, per coloro che, provenendo da un’ulteriore scissione da quello che fu il Partito dei Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto, oggi rispondono al “nuovo” Partito Comunista Italiano (!), una denominazione puramente e nostalgicamente mimetica, niente di più che un tentativo di rimarcare un’identità, altrove scomparsa, sebbene i suoi esponenti si sentano più legati ad una tradizione che va da Antonio Gramsci a Enrico Berlinguer.
Dal piccolo partito elitario si è passati, dunque, al partito minoritario, da cui forse ripartire per un percorso a ritroso nel tempo, nella ricerca vana, delle parole giuste (le parole sono importanti, recitava, ancora, Nanni Moretti), per non apparire semplicemente dei nostalgici conservatori, semmai “formiche rosse”, o “carbonari” in attesa che questa volta le contraddizioni del sistema neocapitalista esplodano per davvero e con grande fragore.
Mi scusi, ma ha veramente scritto:
“In tal senso è esemplare il caso di Peppino Impastato, l’eroe delle masse giovanili di sinistra (o almeno quando dichiararsi di sinistra non generava sensi di colpa), che morì ammazzato durante una campagna elettorale dove si era candidato nelle file di Rifondazione Comunista e non in quelle del Partito Comunista” ????
Le ricordo che Peppino impastato fu ucciso il 9 maggio del 1978, quando non solo non c’era ancora rifondazione Comunista, ma non era neanche caduto il muro di Berlino. La campagna elettorale a cui lei si riferisce è quella per le comunali di Cinisi, dove si candidò nelle liste di Democrazia Proletaria. Ovviamente, anche se dal suo testo non si evince, saprà sicuramente che fu assassinato per aver condotto una battaglia politica e civile contro la mafia.
In sintesi, se esordisce con un tale strafalcione in un articolo che vuole affrontare una parte della storia della sinistra, come può pensare che i lettori vadano avanti nella lettura?
Cordiali saluti
Bè, se “ritorna, quindi, come un boomerang l’interrogativo morettiano sul senso che si vorrebbe dare oggi all’essere comunisti”, partirei da riflessioni che sorgono proprio dai fondamenti etici comunisti, oggigiorno così evitati da troppi compagni. A cominciare dalla questione assolutamente centrale della proprietà privata. Ma come, finalmente e di nuovo, si sta dimostrando nella pratica sociale, comunalista in Chiapas, e soprattutto nella Rojava.
Ve ne sono comunque molti altri, per esempio tra i Mapuce. Forse alcune delle chiavi attuali più accertate per avanzare allo stesso tempo anche sull’altro problema centrale, immediato e concreto, quello dell’organizzazione, si potrebbero dedurre come assai valide da ‘Apriamo connessioni operaie globali’ di Raveli, un argentino con profonde esperienze internazionaliste, come ci dimostra. È solo un esempio, ma mi pare assai sviluppato per poter superare vecchi paradigmi ormai controproducenti.