– di FRANCESCO VALACCHI –
La lezione che ci ha trasmesso il Walter Maturi studioso è di un peso essenziale per comprendere il panorama intellettuale del nostro paese nel secondo dopoguerra, ma è solo parte del patrimonio che Walter Maturi uomo, con i suoi rapporti e i suoi insegnamenti ha disseminato fra gli storici in particolare e gli intellettuali in generale nel nostro paese. Negli anni di insegnamento a Torino e a Pisa egli ebbe modo di forgiare allievi di peso nel campo della storiografia nonostante la sua prematura scomparsa a Roma nel 1961.
La produzione di Maturi è solo parte della sua eredità e con ogni probabilità le sue lezioni frontali diffuse fra gli studenti dei suoi corsi superano il volume la sua opera a stampa. La produzione può essere suddivisa in tre periodi principali: le prime opere, le opere del periodo maturo e le raccolte delle sue lezioni universitarie tenute come libero docente. Nel primo gruppo possiamo inserire Il Concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie (del 1929), La crisi della storiografia politica italiana (del 1930) e Costantino Nigra secondo il carteggio col Cavour (sempre del 1930). In queste prime opere si sente molto l’influenza di colui che fu forse il suo principale maestro, lo storico napoletano Michelangelo Schipa, che gli trasmise l’amore per la storiografia approcciata con discernimento critico e la passione per l’insegnamento. Nelle pagine di questi primi lavori risalta il peso degli studi filosofici del Maturi che, oltre alla laurea in storia conseguì una laurea in filosofia discutendo con Giovanni Gentile una tesi su Joseph de Maistre. Il suo lavoro gettava luce su uno dei prodromi del futuro grande interesse per lo storico, le vicende del Risorgimento italiano. Il Maturi percepì sin da subito, fin dalle prime opere lo stridente contrasto fra Ethos e Kratos , la dimensione etica e morale e quella razionale e di potenza, come ci fa notare anche il Cortese nel suo articolo Walter Maturi e la storia del Mezzogiorno durante il Risorgimento.[1] Nella prima delle tre opere citate è avvertito il contrasto fra idealismo e razionalismo nei giochi di potere delle fazioni della Curia vescovile che, cercando di trarre il più alto vantaggio dall’evoluzione politica tentavano di porsi, con esemplare senso di realpolitik, nella più favorevole posizione possibile fra restaurazione e concessioni ai liberali derivate dalle idee diffusesi in quel primo scorcio dell’Ottocento. La Chiesa cercava di mantenere nel Meridione quella posizione di vantaggio che gli era conferita dalla sua capillare diffusione, dalla soggezione che i preti suoi ministri ispiravano nel popolo, nelle classi più basse come nelle medie e dalla legittimazione che poteva conferire alle classi più elevate. Seppe cogliere, il Maturi, la sottile diplomazia che Santa Romana Chiesa mise in atto per verificare dove poteva giungere giocando col peso che la fede aveva per i cittadini del Regno, dibattendosi fra l’Ethos della sua missione spirituale ed il Kratos della sua volontà di potenza, della sua necessità di ottenere un peso geopolitico nell’area. Si legge nelle pagine di questa sua prima opera il contrasto che sempre verrà percepito fra razionalismo portato all’estremo e semplice idealismo.[2]
Oltre alla visione filosofica della storiografia del Maturi è soprattutto chiara la sua metodologia che affianca alla dimensione della speculazione filosofica l’analisi dei dati scientifici, proprio per questo aspetto il Maturi ebbe una divergenza non solo di tipo squisitamente metodologico ma anche di tipo filosofico/storiografico con il Croce. L’esempio del più grande esponente della filosofia idealista italiana rimane sempre traccia principale per l’opera di Maturi, come esposto con chiarezza in un saggio comparso sulla raccolta Cinquant’anni di vita intellettuale in Italia, collettanea uscita in onore di Benedetto Croce nell’occasione dei suoi ottant’anni. Eppure la visione generale del Maturi si discosta da quella del filosofo, e questo a partire già dai primissimi lavori, in particolare un critico puntuale e attento come il Salvadori ha evidenziato discrepanze sul concetto di storia contemporanea dei due intellettuali, sul rapporto fra politica e morale (che ci riporta al grande dilemma Ethos/Kratos) e sul peso della geopolitica negli affari internazionali, nelle relazioni fra stati.[3] Il punto cruciale della divergenza però rimase il secondo: mentre il Croce parve superare il dilemma della diatriba tra quest’aspetto del razionalismo e della ragion di stato e dell’etica, nel Maturi il conflitto rimane, come una pietra che schiaccia l’azione del politico. In base ad una stringente ragion di stato, dal momento in cui lo stato, mediato dall’azione politica dei governanti, diveniva la rappresentazione dello spirito, per il Croce il sistema del fascismo poteva accettarsi nel momento in cui era ricondotto alla ragion di stato, e questo sconcertava il Maturi.[4] Egli non poteva accettare il fascismo in alcun modo, fosse anche forma di governo giunta al potere grazie all’elezione col sistema democratico dell’epoca, infatti Volpe, anch’egli suo maestro, quasi al pari dello Schipa, lo definisce <<liberale, liberalissimo […] forse il più distaccato, nell’intimo, dal mondo del fascismo.>>[5]
Fra le opere della maturità risaltano: il saggio Il Risorgimento (pubblicato sulla Enciclopedia italiana), Metternich (1934), Il Congresso di Vienna e la Restaurazione dei Borboni a Napoli (1938), La politica estera napoletana dal 1815 al 1820 (1939), Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento e Il Principe di Canosa (1944). Punti cruciali di questo secondo periodo del Maturi sono la concentrazione degli studi sull’Italia meridionale e quindi sulla realtà del Regno borbonico e l’emersione della problematica delle élites. Lo studio degli elementi dirigenti della politica e della società visti attraverso la lente dello studio della Restaurazione (in special modo nel Sud ma contestualizzata nell’ambiente europeo) e del Risorgimento sarà di nuovo un elemento di differenziazione e specificità della sua visione storiografica. È molto interessante l’opera Il Principe di Canosa, con la quale il Maturi divenne il più rilevante biografo di quell’Antonio Capece di Canosa, strenuo difensore della nobiltà dell’Italia meridionale nella Restaurazione borbonica. La forza dell’analisi storica del Maturi, oltre alla puntuale contestualizzazione della narrazione della vita del Principe di Canosa non solo nel Meridione d’Italia ma in tutto l’ambiente europeo, è l’impronta che egli sa dare alla narrazione ridando vita a una folla di personaggi abbozzati o descritti ma comunque finemente caratterizzati. Ciascun personaggio è definito con le proprie convinzioni, col proprio umore e con la propria psicologia, nel palcoscenico storico della classe dirigente del momento: quella nobiltà che Antonio Capece, coerentissimo fautore della Restaurazione definiva come una delle fondamentali potestà intermedie sulle quali si basava la monarchia.[6] Nella sapiente illustrazione della nobiltà meridionale si colgono le convinzioni del Maturi sulla definizione della classe dirigente. La classe dirigente politica per lo storico e storiografo napoletano è senza dubbio un elemento elitario: non sono le masse ne tantomeno dei dirigenti organici alle masse a costituire il motore della dirigenza politica quanto piuttosto le élites politiche che emergono fra i gruppi sociali nella storia, emerge pertanto, la visione di Maturi secondo la quale è alle élites che bisogna guardare in quanto le esigenze e le istanze politiche delle masse emergono attraverso di essa nella storia.[7] La teoria del Maturi si contrappone nel modo di intendere la classe dirigente a tutta l’analisi gramsciana e si differenzia anche nella metodologia utilizzata per descrivere e analizzare la classe dirigente politica dalla visione crociana. Per Croce la teoria della classe politica era un momento particolare, quasi contingente, della sua generale visione idealista della storia che discendeva pertanto completamente dalla sua generale visione filosofica. Si trattava di un momento una generale concezione della vita politica decisamente conservatrice, Croce tendeva a vedere le classi politiche dirigenti quasi in contrapposizione con le masse e a leggerne i comportamenti in base ad uno schema idealistico perfettamente integrato nella sua filosofia.[8] Maturi invece, come appare chiaramente nella biografia del Principe di Canosa, utilizzava elementi empirici come guida della sua analisi, desumeva, con metodo di ricercatore delle scienze umane, le intenzioni della classe politica dai documenti e dai fatti inserendo poi le figure studiate nei modelli storiografici che sosteneva.
Ad un terzo, rilevante, gruppo di opere appartengono le lezioni di Walter Maturi tenne ora a Torino, ora a Pisa, dove ebbe la cattedra di Storia del Risorgimento. Le lezioni sono raccolte principalmente in Corso di Storia del Risorgimento (per l’anno accademico 1952-1953), nell’opera postuma Interpretazioni del Risorgimento (1962) e le sue interpretazioni e convinzioni di questo periodo possono essere consultati in alcuni interventi come quello in occasione del centenario del Senato subalpino.[9] Quest’ultima fase di opere rappresenta senza dubbio il lascito che il Maturi intendeva dare della sua visione della storia e del compito della storiografia: è in queste lezioni che emerge come centrale e quasi come metronomo del ritmo della storia il conflitto fra Ethos e Kratos nel quale si dibattono le classi politiche ad esempio. Attraverso la storia contemporanea poi questo dilemma giunge a noi ed è l’eterna sfida dello storico riuscire a intravedere un modo per conciliarli. Di questo momento di lucidità fu alla ricerca il Maturi in tutta la sua opera: conciliare effettivamente la pulsione verso la moralità a quella verso la razionalità, senza cadere nella trappola di dover giustificare i comportamenti dei personaggi storici e senza giustificarli o giudicarli con la lente della contemporaneità, ovvero come egli stesso dichiarava: affrontare le questioni della storia senza piccineria, senza chiudersi nell’orizzonte di una volontà pregressa allo studio della storia che non sia quella dell’approfondimento.[10] Se lo storico riesce in questo suo compito il suo lavoro sereno di analisi è come quello del sapiente nel Qohelet (nella splendida traduzione di Guido Ceronetti):
- Chi come il sapiente
Per penetrare il senso delle cose?
Sapienza
In un volto d’uomo
Si fa chiarore
Le durezze del viso
Trasfigura[11]
[1] Cfr. N. Cortese, Walter Maturi e la storia del Mezzogiorno durante il Risorgimento, in “Rassegna storica del Risorgimento” ottobre-dicembre 1961, pp.571-572.
[2] Cfr. W. Maturi, Il Concordato del 1818 fra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze, Le Monnier, 1929, pp. 113-115.
[3] Cfr. M. L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Torino, Einaudi, 1970, p. 265.
[4] Cfr. M. L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, op.cit., p.268.
[5] Cit. G. Volpe, Storici e maestri, Firenze, Sansoni, 1967, p. 489.
[6] Cfr. Gianandrea de Antonellis (a cura di), Le cause della caduta del Regno delle Due Sicilie. Atti del convegno in occasione delle celebrazioni dei 300 anni dalla nascita di Re Carlo di Borbone, Napoli, Sacro Militare ordine Costantiniano di San Giorgio, 2017, p.30.
[7] Cfr. M. L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, op.cit., p.260.
[8] Cfr. B. Croce, Prefazione a G. Mosca, Elementi di scienza politica, Bari, Laterza, 1947, p.VIII.
[9] Cfr. W. Maturi, Nel centenario del Senato subalpino, 13 novembre 1958 p.553.
[10] Cfr. W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962, p.679.
[11] Cit. Guido Ceronetti (a cura di), Qohelet Colui che prende la parola, Milano, Adelphi, 2001, p.59.