– di EDOARDO CRISAFULLI –
Carabiniere in borghese uccide un quindicenne che tentava di rapinarlo. Siamo sul lungomare di Napoli, il rapinatore impugna un’arma finta, il carabiniere reagisce. C’è un complice diciasettenne, che si è giustificato così: “volevamo soldi per la discoteca”. Entrambi i ragazzi sono cresciuti nei Quartieri Spagnoli. La solita tempesta “social-mediatica” solleva un gran polverone, e i mulinelli di sabbia annebbiano la vista. Ormai siamo giunti al punto che i fascioleghisti mettono le mani avanti prima ancora che una zecca comunista abbia l’ardire di pronunciarsi sul caso: e via con la tiritera che l’unica vera vittima è il carabiniere, poverino, i giudici l’hanno incriminato per omicidio volontario, per Bacco è sacrosantamente giusto che si spari a bruciapelo a un criminale, vuoi vedere invece che la sinistra difenderà il baby aggressore, un farabutto con precedenti penali? Eccolo, il messaggio nient’affatto subliminale: la destra crede (e investirà) nell’eroica lotta alla criminalità, la sinistra buonista si perde in sociologismi astratti o si crogiola nel pietismo.
Tacete, cari tuttologi: che la Magistratura indaghi e accerti la dinamica dell’episodio, com’è suo dovere fare. Purtroppo gli strascichi del dramma – perché tale è, per il carabiniere e per la famiglia del malcapitato rapinatore — si prestano egregiamente alle polemiche strumentali. Alcuni facinorosi furibondi – parenti e amici del giovane deceduto, a quanto pare – hanno devastato il pronto soccorso dell’Ospedale Pellegrini, dove il quindicenne era stato ricoverato d’urgenza per un intervento chirurgico. Che medici e infermieri vengano minacciati e aggrediti mentre tentano di salvar vite è inaccettabile, su questo non ci piove. Ma è questo il punto cruciale della tristissima vicenda?
Per aggravare il quadro, balordi ignoti a bordo di uno scooter hanno fatto il tiro a segno con la facciata della caserma Pastrengo, in centro città. Raggiunto il punto giusto di esasperazione, scocca il post che, come la freccia dall’arco, saetta ovunque su Facebook: foto di un carabiniere ucciso in servizio nella tale o tal altra località, con commento didascalico viscerale: forse che qualcuno fra i parenti o amici del carabiniere è insorto, bava alla bocca e bastone in mano, oppure ha sparato per ritorsione? Il messaggio, anche qui, è chiaro: i napoletani delle suburre sono bestie, bruti, e la sinistra dei Parioli (o di Posillipo, visto che si parla della capitale partenopea) non vuole prenderne atto.
A nulla serve ricordare che la sinistra italiana ha combattuto la mafia e il terrorismo con la schiena dritta. Quanti politici e sindacalisti socialisti e comunisti — fra cui il mitico Pio La Torre – hanno perso la vita nella lotta alla mafia, quella vera, non quella fatta di slogan che va di moda fra i politici della Terza Repubblica? Figuriamoci se attizzassi una polemica che scava in un passato tanto lontano quanto scomodo: cari amanti del pugno duro, provate forse nostalgia del generale Enrico Cialdini, che represse l’insorgenza delle plebi meridionali – detta crudelmente brigantaggio – mediante fucilazioni in massa e deportazioni? Viviamo nell’epoca del presente assoluto (ab-solutus = sciolto da ogni legame col passato), quindi se scandagli nella storia anche recente ti bollano come un accademico asserragliato in una torre d’avorio, oppure ridacchiano alle tue spalle: toh, un indovino dantesco, un Solone con la testa rivolta all’indietro. Eppure tu non profetizzi nulla, vuoi solo collocare il fatto odierno nell’unica cornice che gli dia un senso: la storia che l’ha generato.
Io sono un estimatore di Craxi, il restauratore dell’autorità dello Stato dopo gli anni di piombo – secondo la puntuale definizione di Luciano Cafagna. Non accetto quindi lezioni in tema di sicurezza nazionale dalla destra sovranista-estremista. Ma poiché questa destra un merito ce l’ha – riconosce la statura del leader socialista — ricordo per amor di verità che Craxi combatté contro il massimalismo della sinistra, perché ai suoi tempi quello era imperante. Mica sdoganò il massimalismo parolaio e forcaiolo della destra più becera degli ultimi cinquantanni! Craxi, un garantista tutto d’un pezzo, giammai avrebbe tollerato la bassezza morale dei leoni da tastiera che inneggiano ai carabinieri condannati giustamente per aver pestato a sangue Stefano Cucchi; Craxi sarebbe intervenuto anche contro di chi getta fango addosso alla sorella Ilaria la cui unica colpa è quella di aver cercato giustizia con coraggiosa caparbietà. Giorgio Almirante era un gentiluomo in confronto a certi personaggi meschini e mediocri che ne vorrebbero prendere il posto. Il che è tutto dire! Senso dello Stato e rispetto delle Istituzioni democratiche significa, anzitutto, attenersi al giuramento di fedeltà alla Costituzione antifascista e ai valori che essa incarna.
Craxi aveva credenziali impeccabili anche in politica estera, conquistate a seguito della sua scelta di campo filo-occidentale. Nel nebuloso affaire Aldo Moro poteva permettersi la linea della trattativa umanitaria con le BR, linea che stava per sgretolare il fronte della fermezza. Craxi – sostenuto da tutta la dirigenza socialista – ci ha insegnato una gran verità: credere nello Stato democratico non significa avallare qualsivoglia politica in nome della ragion di Stato. La vita di Aldo Moro è troppo preziosa, non deve essere sacrificata per ossequio a un principio astratto! Quante volte, diceva Craxi, i governi democratici stranieri (per esempio quello israeliano) hanno negoziato con terroristi? Nonostante la divergenza di opinioni sul caso Moro, sia il PCI che il PSI lottarono con coraggio per la legalità democratica, di certo nessuno, nella sinistra costituzionale e parlamentare, chiese alla polizia il disarmo unilaterale. La sinistra buonista è una caricatura bella e buona.
Attenzione però. Una sinistra che si rispetti vuol andare alla radice dei problemi. Craxi – ancora forti erano gli echi della Contestazione violenta – sottolineò un punto dirimente: “io credo nell’ordine, ma non nell’Ordine con la O maiuscola.” Qui è racchiusa la visione liberal-socialista: anche uno Stato democratico può eccedere nella repressione, i suoi servitori sono capacissimi di violare i diritti umani.
Qualcuno pensa davvero che il problema della criminalità giovanile possa essere risolto con una massiccia presenza di carabinieri in assetto di guerra? Il monopolio della forza è – e deve rimanere – prerogativa esclusiva dello Stato. Tutti i territori della Repubblica devono essere controllati dalle forze di polizia, è uno scandalo che ci siano aree grigie abbandonate alle scorrerie piratesche di bande, italiane o straniere che siano.
Ciò premesso, quando la criminalità endogena, quella made in Italy al 100%, diventa un fenomeno endemico, cioè sociale, per sradicarla devi intervenire con politiche di prevenzione: servizi sociali, reti di protezione, educatori sul territorio, edilizia popolare, incentivi per la formazione professionale, lotta senza quartiere all’abbandono scolastico. È così che, pian piano, si interrompe la micidiale catena che tramanda il disagio di padre/madre in figlio. Uno Stato costretto a ricorrere alla repressione massicciamente ha fallito nell’opera di bonifica sociale prima ancora di averla intrapresa. Così avvenne con la feroce guerra al cosiddetto brigantaggio – spia di una più vasta realtà politica e sociale. Sì, Cialdini riportò l’ordine con la O maiuscola a suon di cannonate, fucili puntati e baionette innestate, ma gli effetti collaterali hanno destabilizzato l’Italia, e li avvertiamo tuttora. Lo Stato unitario per molti meridionali diventa il nemico numero uno: un’entità che ti sovrasta, il garante dell’accordo politico-affaristico-spartitorio fra Monarchia autoritaria, industria del Nord in fase di decollo e latifondo arcaico del Sud. Lo Stato sabaudo, insomma, bussa alla tua porta quando si tratta di farti pagare la tassa sul macinato, o quando i tuoi figli sono chiamato alle armi come carne da macello. Se osi ribellarti, quello Stato lì non esita a spararti addosso. Il truce generale sabaudo Bava Beccaris, nel 1898, sparò sulla folla inerme a Milano che pretendeva solo pane a buon mercato. Fu decorato, e poi nominato senatore del Regno. Acqua passata, direte. Certo, ma la memoria storica non svanisce come la nebbia al primo sole. La diffidenza verso lo Stato si radica negli animi, è congenita.
Passi da gigante in avanti li ha compiuti la Repubblica democratica: l’analfabetismo, vera piaga sociale, è stato debellato in buona parte, per la prima volta, negli anni del primo Centrosinistra che fece costruire centinaia di scuole e impose la scuola media unica. Perché allora all’inizio del Ventunesimo secolo assistiamo, stupefatti, al dilagare dell’analfabetismo di ritorno? Masse di giovani italiani, nel nostro splendido Mezzogiorno, non studiano, non lavorano, né fanno i boyscout. Non sarà mica tutta colpa loro. Studiare, studiare, studiare: questo il piano Marshall di cui avremmo bisogno, ma è a Tullio De Mauro che dovremmo dedicarlo. I concittadini tagliati fuori dall’economia della conoscenza diventano per forza di cose reietti, paria. Il passo successivo, manovali dell’industria del crimine, è breve.
Le Brigate Rosse furono sconfitte politicamente, nella battaglia quotidiana condotta dai partiti costituzionali e dai sindacati – il socialista Sandro Pertini prese di petto i camalli genovesi fra cui si annidavano simpatizzanti dei ‘compagni che sbagliano’, “Anch’io ho combattuto nelle brigate rosse, ma contro i fascisti, non contro i democratici!”; il comunista Luciano Lama, anch’egli ex partigiano, nel celebre discorso del 25 aprile 1978 a Venezia, riaffermò il rigetto totale e incondizionato delle tesi aberranti dei finti rivoluzionari, il brigatismo rosso è “un attacco diretto alla democrazia, alla libertà, alla Repubblica e alle sue Istituzioni.” Solo a quel punto, quando furono isolati ideologicamente, i terroristi si piegarono alla repressione delle forze dell’ordine.
Il caso della criminalità giovanile è più complesso: qui non c’è di mezzo un’ideologia distorta che legittima il ricorso alla lotta armata in uno Stato liberal-democratico qual è l’Italia. Abbiamo bensì a che fare una società civile martoriata o malata nonché con innumerevoli famiglie disastrate, senza futuro. È, questo, il brodo di cultura ideale per la devianza giovanile. Non lo si ripeterà mai abbastanza: la cultura è la via maestra per inserire tutti i cittadini nella comunità nazionale. Credetemi, non funzionerebbero né la militarizzazione del territorio, né la giustizia fai da te all’americana gradita alla Lega convertitasi furbescamente al sovranismo – tutti armati fino ai denti a casa propria, con licenza di sparare all’intruso appena mette piede nel tuo giardino. Il politico di destra intelligente questo lo sa: liscia il pelo ai cittadini preoccupati, ma è ben consapevole che il malessere giovanile è, anzitutto, ancora una volta, una questione politico-sociale.
Ponetevi due domande, prima che vi risucchi una delle opposte tifoserie e condividiate su Facebook post schiumanti rabbia e frustrazione. (1) Perché il baby rapinatore non era a scuola, o a casa sua a fare i compiti, o in un campetto a giocare a calcio, o in parrocchia con i suoi coetanei – posto che ve ne siano ancora, di parrocchie funzionanti? (2) Si tratta di un caso isolato, oppure di potenziali criminali in erba ce n’è a migliaia nelle periferie degradate di mezza Italia?
Dalle risposte dipenderà la soluzione politica che adotterete. Intendiamoci, il ricorso alla forza su vasta scala è anch’esso frutto di una politica: miope e fallimentare, però. Prima di aderire al campo degli apocalittici, vi suggerisco di meditare su un commento rivoltomi da mio genero, cittadino britannico nato da madre indiana musulmana: voi italiani parlate di continuo dell’integrazione degli stranieri come se fosse l’impresa più difficile al mondo, e pare oltretutto che affrontiate per la prima volta questo problema. Ma non è così. Vi siete mai chiesti perché così tanti italiani di cultura cattolica, nativi da generazioni, NON sono ancora integrati nel vostro sistema? Giacché – questo è ovvio – chiunque sia in età scolare e non frequenta una scuola non è integrato nella comunità di destino che si soleva chiamare Patria, neppure lo è chi vive ai margini della società in quanto campa di espedienti, né è integrato il disoccupato in servizio permanente ed effettivo. Confesso una mia granitica certezza: non integrato non significa non integrabile.