– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
È in scena la fine della lotta di classe nell’era globale! Ce la racconta il film capolavoro annunciato Parasite, 2019 del regista coreano Bong Joon-ho, già vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia e ora di ben 4 Oscar. Una messinscena narrativamente virtuosistica che non risparmia nemmeno taluni colpi di scene e un doppio finale consolatorio, pone al centro, non in senso dialettico ma più semplicemente contrappositivo, l’esistenza di due famiglie, una povera, l’altra ricca, in una Seul che appena si intravvede nell’economia di una narrazione prevalentemente d’interni. La prima, formata da quattro elementi, padre madre fratello e sorella, vive in uno scantinato tra vecchie e decrepite case di legno. La seconda, anch’essa composta di quattro elementi, in un disegno narrativo di pretesa simmetria, vive la propria ricchezza come un fatto naturale, ineluttabile e perciò tanto più pregnante, risiede in una lussuosissima villa moderna nel quartiere più esclusivo della città. Poveri e disoccupati, essi testimoniano i paradossi e le ingiustizie della globalizzazione nelle metropoli asiatiche, a cui, tuttavia, reagiscono mettendo a segno un piano diabolico con cui giungono a sostituirsi ai vecchi servitori (domestica, autista e insegnanti dei figli), al servizio della ricca famiglia alto-borghese, ignara di quanto avviene tra le mura di casa. Dunque, la vecchia lotta di classe novecentesca viene prontamente sostituita, attraverso una lettura sociologicamente piuttosto affrettata, da un desiderio collettivo (laddove a insistere è una forte coesione familiare) di emulazione e di sottomissione al più ricco, sebbene mescolato ad un reale istinto di sopravvivenza. Come si sa, per realizzare un simile piano è necessario sacrificare altri soggetti, in tal caso vittime della medesima sfera sociale. Ed è proprio in questa fase del racconto (con il piano andato perfettamente a segno, almeno nella prima fase) che il principio della lotta si sostituisce a quello della guerra tra poveri dove vince chi è più veloce e più furbo. Ma chi sono i poveri e chi i ricchi? Ad un primo sguardo, i primi sarebbero, in fondo, delle brave persone, solo vittime della sfortuna, con un padre pronto a mettersi a disposizione, una madre disposta a tutto e due figli “digitali” che paiono, a dire il vero, le copie di molti di noi o una moltitudine di personaggi giovanili di tanto mainstream americano. Insomma, una famiglia quasi normale come ve ne sono a milioni e in cui non è certo difficile potersi identificare. Eppure il loro piano, in cui ciascuno dei quattro componenti avrà un ruolo di protagonista, non ammette errore né pietà per le vittime da sostituire nel nuovo ruolo sociale. Un nuovo esercizio di crudeltà che l’economia globale, in cui ciascuno è, insieme, vittima e carnefice, esige e legittima attraverso l’entità lavoro – denaro della posta in gioco. Siamo quasi tentati di assolverli sentandoci parte di essi, partecipando in prima persona alla loro strana odissea in cerca di una nuova Itaca fuori da loro stessi e dalla propria condizione. Questo in virtù del fatto che non vi è né uno sguardo critico, né pietas verso i personaggi e le loro azioni, come al contrario, cogliemmo in opere di ben altra profondità quali The Servant-Il Servo, 1963 di Joseph Losey, o in Coup de trichon-Colpo di spugna 1981 di Bertrand Tavernier, dove il conflitto di classe diventa conflitto di civiltà tra bianchi e neri. In fondo il “parasite” del titolo, non sembra affatto voler assumere alcun connotato di critica sociale. Succhiare la linfa dei ricchi, inserirsi nella loro scia, potendo, magari, un giorno sostituirvisi, non appare come un reato, al massimo come una debolezza. Quindi, accettabile. Si veda a tale proposito la sequenza chiave del film, la più sapiente e riuscita in cui la famiglia povera, finalmente installatasi nell’intimità della casa borghese, si abbandona alla gozzoviglia e alla confessione spontanea. E i ricchi? Essi sfiorano lo stereotipo: una moglie bella ma fragile e ingenua, un marito assente, campione di quell’élite finanziaria che guadagna milioni presiedendo consigli d’amministrazione, ma passiva, inerte, priva cioè di qualsiasi connotazione sociologica, ridotta, cioè, a modello materiale disumanizzante, nell’equazione persone uguale a cose che possiedono e da cui sono a loro volta possedute. In questa storia di ordinaria follia nessuno è innocente. Non lo sono i “poveri” che dopo essersi subdolamente insinuati nella casa e nella vita degli altri, portano la guerra tra poveri al parossismo quando, indotti a un momento di complicità verso coloro che hanno messo in strada, reagiscono con violenza in difesa del privilegio ottenuto, ossia del diritto di non dividerlo con nessuno. In questo moderno e fin troppo facile jeu de massacre dove tutto (personaggi, azioni, colpi di scena, sequenze drammatiche) sembra rispondere a un disegno di collaudata violenza, assai congeniale, direi perfino consustanziale ai registi asiatici: avidità, violenza, vendetta e catarsi. L’unica traccia di dignità di classe rinvenibile nel film non può, dunque, che confondersi con la vendetta, come nella sequenza della grande festa borghese in cui, mentre il paria, prigioniero nella casa dei ricchi, si vendica con un coltello e con una pietra, di coloro che hanno ucciso la moglie, venendo a sua volta ucciso dalla moglie dell’autista in un crescendo di sapore tarantiniano, l’autista, a sua volta, di fronte alle reiterate umiliazioni, colpisce a morte il ricco che lo aveva accusato di emanare un cattivo odore. Di fronte all’inverosimiglianza della sequenza in cui il figlio dell’autista, colpito violentemente per ben due volte alla testa, si ritrova vivo e vegeto in ospedale, vittima di una risata isterica, non stupisce nemmeno la scelta di un finale consolatorio in cui al padre, che nel tentativo di sfuggire alla legge, si nasconde nel bunker dei ricchi prendendo il posto dell’altro (nel rispetto di una tessitura simmetrica), riesce a comunicare con il figlio attraverso l’alfabeto Morse utilizzando l’intermittenza di una lampadina che dal bunker corrisponde alla casa dei ricchi, il quale, nel rispondere al padre, sogna, un giorno, di poter liberarlo dopo essere finalmente diventato ricco e avere comprato quella villa per mamma e papà…!
L’inferno è qui in mezzo a noi e non lo sapevamo…!