Lontano da dove? Il senso del viaggiare ai tempi della globalizzazione

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

In tempi davvero profetici, Marshall McLuhan – il grande massmediologo autore di un libro fondamentale che andrebbe letto e studiato: La galassia Gutenberg – parlò di villaggio globale. Cosa voleva intendere? Che sarebbe, molto presto, arrivata l’epoca in cui, grazie soprattutto ai mezzi di comunicazione di massa sempre più raffinati, le dimensioni del mondo si sarebbero rimpicciolite fino ad assumere la forma di una piccola comunità – il villaggio per l’appunto – nella quale ci si conosce tutti e poco spazio vi è per la novità e lo stupore.

Inutile soffermarsi sui limiti di una tale intuizione e su tutto ciò che di vero vi è in essa. Non sarà, tuttavia, vano riflettere su un particolare: nei tempi del villaggio globale – i nostri, per l’appunto – il senso del viaggiare quale valore assumerà per gli uomini?

Sono stato, di recente, negli Stati Uniti. L’ultima volta che visitai questa terra promessa per tanti che intendono affermarsi sul piano professionale, avevo avuto la netta sensazione di trovarmi effettivamente all’estero. Sentivo la distanza dall’Italia, percepivo la differenza nelle consuetudini alimentari, nel modo con cui le strade sono progettate, negli stili di guida, nel modo di camminare delle persone: tutto mi appariva estraneo.

Nel mio ultimo viaggio, invece, ho avvertito la sensazione opposta. Ogni cosa mi suonava familiare. E l’impressione che ne ho ricevuto, sia all’arrivo negli USA che al rientro in Italia, è stata quella di non essermi mai allontanato da casa.

Non voglio, ora, discutere se ciò sia un bene o un male. Tuttavia questa esperienza, che immagino non essere solo mia individualmente ma – forse – condivisa da un ampio gruppo di persone, ci deve indurre a riflettere sul significato ultimo della globalizzazione.

Anni fa si pensava che il mondo globale, abolendo distanze e frontiere di ogni tipo – fisiche e culturali –, avrebbe reso le varie popolazioni di ogni continente molto più vicine. I fatti ci hanno dimostrato il contrario. E cioè che alcune posizioni – ideologiche e religiose in particolare – sono divenute sempre più radicali fino a sfociare in un vero e proprio scontro armato fra integrismi che non intendono dialogare, bensì obbligare con la violenza la controparte a far proprio un punto di vista anche se non le appartiene.

Se sul piano culturale ha fallito, al contrario la globalizzazione è perfettamente riuscita su quello economico. A che prezzo, lo sappiamo tutti. Comunque è così che sono andate le cose e, suppongo, che continueranno negli anni avvenire a scapito delle popolazioni incapaci (per limiti strutturali e sociali) ad entrare in questo meccanismo mondiale votato al massacro dei più deboli.

Se una volta il senso del viaggio era quello di fare esperienza di realtà straniere per arricchire la propria cultura di origine, oggi per via della globalizzazione non è né sarà più così. I mezzi di comunicazione di massa, sempre più tecnicamente raffinati, danno la possibilità alle persone che li subiscono di andare all’estero senza muovere un passo da casa. Basta pensare ai giochi per la playstation che ambientano storie o battaglie in metropoli quali New York o Pechino o dove che sia: al di là della partecipazione emotiva alla finzione, le riproduzioni di ambienti urbani stranieri sono talmente perfette che quando ci si trova realmente in questi luoghi si finisce per conoscerli (o, quanto meno, è ciò in cui si crede fermamente).

Per non parlare delle reti televisive straniere, oggi facilmente fruibili grazie alle antenne satellitari. Grazie anche a questo, per tutti (colti e ignoranti) non sarà un problema affinare la familiarità delle lingue straniere e, di conseguenza, non percepire più l’inglese o il francese come idiomi che rappresentano un modo diverso di ragionare e pensare da integrare rispetto a quello che la nostra terra natia ci ha fornito dalla nascita.

In parole povere: se la tecnologia digitale ha reso il mondo un villaggio, rendendolo piccolo in modo da conoscere tutto di ogni realtà, perché viaggiare? Quale il suo significato?

Tanto vale restarsene a casa se la sensazione che si ha andando a New York, per esempio, è quella di aver girato l’angolo della strada in cui abitiamo. Sensazione accresciuta anche dal fatto che durante i voli intercontinentali vi è, ora, la barbara consuetudine di viaggiare oscurando gli oblò per non disturbare la visione di films o serie televisive – tutti prodotti stranieri – che le compagnie aeree mettono a disposizione per ingannare il lungo tempo fra il decollo e l’atterraggio. Un tempo, invece, si approfittava dei lunghi voli per dialogare, leggere qualche buon libro (o un giornale alle brutte) o guardare il panorama che si stava sorvolando.

Il villaggio globale, o globalizzazione, ha finito per uccidere il senso bello e profondo del viaggiare: scoprire e stupirsi per un periodo di tempo, e poi tornare per vedere ciò che si era lasciato con occhi diversi e arricchirlo di immagini nuove.

Si può recuperare tutto ciò? Indubbiamente sì. Basterebbe riprendere l’esempio di Salgari, che pur non avendo mai visitato i luoghi in cui ambientava le sue storie gli bastava una cartina geografica e dell’immaginazione – associata a qualche buona lettura – per ricreare nel lettore la sensazione di estraneità rispetto a un mondo che non conosceva.

In alternativa si può adottare un’altra soluzione: invece di visitare subito le grandi metropoli del mondo, per disabituarsi alle immagini stereotipate che i mezzi di comunicazione di massa offrono di esse, sarà bene recarsi in quelle piccole comunità rurali e urbane straniere distanti dai centri abitati che l’occhio del grande fratello non ha ancora raggiunto. Allora sì che lo stupore, mai sopito nell’animo umano, tornerebbe ad alimentare sogni e sguardi della popolazione del villaggio globale.

 

pierlu83

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