Realismo socialista e nuovo populismo versus Avanguardia

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

Tutto ha inizio con un paradosso che ha accompagnato per intero il XX° secolo, ovvero come essere comunisti e rivoluzionari in un mondo, quello occidentale, solidamente radicato in un’economia capitalista. Il problema sollevato dal rapporto tra arte e politica ha del resto contrassegnato tutte le società moderne. Pensiamo al grande momento rivoluzionario confluito nella Rivoluzione d’Ottobre che ebbe come riflesso la nascita e lo sviluppo di un’arte d’avanguardia, formalista, estesa alle arti visive, a quelle figurative e alla poesia. Ma il suicidio della rivoluzione che si volle anche simbolicamente identificare con quello del poeta Vladimir Majakovskj, portò, come è noto, ad una nuova fase dello sviluppo del pensiero artistico e dell’azione ad esso corrispondente, che potremmo definire involutivo, universalmente conosciuta come realismo socialista. Contemporaneamente, nell’Europa Occidentale, con l’affermarsi definitivo dei regimi totalitari, fascista e nazionalsocialista, si esaurisce la grande spinta delle avanguardie che oggi definiamo storiche, tristemente rubricate come “arte degenerata”, sebbene con sfumature differenti rispetto alle diverse latitudini politico-culturali. Se la recente visione di Il ritratto negato, 2019, film postumo del regista polacco Andrzej Wajda (che ne è il testamento artistico), ci spinge a prendere una posizione a favore del protagonista, Wladislaw Strzeminski, artista figurativo e accademico, perseguitato nel 1948 fino alla prematura morte, dal regime comunista in quanto sostenitore di un’arte formalista (art pour l’art), d‘altro canto sono esistite varie coniugazioni non dogmatiche del verbo realista che da sole renderebbero perlomeno discutibile il bipolarismo dogmatico del grande regista polacco (che già vedemmo nella contrapposizione tra la figura di Robespierre e quella di Danton, in Danton, 1983, appunto). Una terza fase storica, nata dalle rovine della seconda guerra mondiale, modulata sugli ideali repubblicani e dell’antifascismo e al tempo stesso sviluppatasi in seno alla nuova società di massa, definibile come neoavanguardia, portava a compimento non solo l’unione tra estetica e politica ma anche tra arte e merce (in questa seconda equazione è rinvenibile l’essenza stessa della neoavanguardia, inclusa la breve fase post-moderna). Nella fase storica attuale, la merce, infatti, diviene il fine esclusivo dell’arte, sebbene con l’aggiunta di un elemento nuovo che potremmo definire post-ideologico: la necessità di un alibi intellettuale quale copertura di un intento puramente mercantile oggi dominante, che, nel rinnegare qualsivoglia avanguardia, derubricandola, “leninisticamente” (ma si tratta solamente di plagio!…), come “malattia infantile” del radicalismo borghese e dunque, confinandola entro i limiti temporali del secolo passato, farebbe riferimento all’idea, peraltro mai veramente teorizzata, di un’arte popolare capace di mettere finalmente d’accordo critica (o quanto ancora esiste di essa) e pubblico, di vivere l’intrattenimento non come una colpa ma, finalmente, come desiderio legittimo di una massa popolare in cui sono, ormai, cancellati i confini tra sensibilità, conoscenza e non conoscenza,  decapitata nelle sue punte d’intelligenza e di cultura che un tempo si diceva “intelligencia” o, ampliando il concetto, borghesia illuminata. Un popolo senza più difese se non la propria supposta individualità, ossia quell’ossimoro che chiamiamo individualismo di massa che più che la libertà, genera l’illusione di libertà. Ma se al controllo del partito sostituiamo quello delle élite socio-economico-culturali, pur con le dovute differenze che ovviamente intercorrono tra i due sistemi politici, quello stalinista e quello liberista, del libero mercato delle idee e delle persone, scopriamo una singolare consonanza tra la nuova demagogia populista, comune sia ai sovranisti che ai globalisti, che consiste nel rifiuto della complessità dell’atto creativo, della libertà effettiva dell’artista di poter usare un linguaggio estetico non immediatamente riconoscibile né fruibile come puro intrattenimento. Ma con una sostanziale differenza di finalità e di metodo. Se nella società del liberismo globale ogni atto è finalizzato alla produzione di merci, in quella staliniana, esso lo era alla glorificazione del partito e della sua ideologia. In entrambi le opzioni vi è comunque ostilità e sospetto per la libertà dell’intellettuale, ma ancor più dell’artista la cui opera in entrambi le latitudini dovrà necessariamente essere comprensibile a tutti. E per l’ideale collettivo e per il mercato. Se, infine, il realismo socialista fu un dogma estetico difeso con spirito autoritario e talora, persecutorio, la “nuova semplicità”, (una definizione diffusa tra i musicologi, ma valida anche per altre forme artistiche),  riflesso condizionato del nuovo populismo culturale che alligna, sia pur con fini differenti, sia sotto i cieli totalitari del sovranismo che del globalismo liberista, alimenta un nuovo tipo di conformismo e di esclusione ipocritamente pacifica, ancorché insidiosa, nel vuoto delle idee e del linguaggio entro una prospettiva di ripiego conservatore su stilemi del passato, complice quelle élite culturali tanto vituperate dagli stessi populisti.

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