– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Oltre vent’anni orsono il noto giornalista, regista e fondatore della rivista Latinoamerica Gianni Minà intitolava una collana di testi inerenti alla cultura del Sudamerica “Continente desaparecido”. La ragione della scelta del titolo dipendeva dal fatto che con la vittoria dei partiti moderati e liberali in molti paesi sudamericani, l’Europa di sinistra aveva temporaneamente smesso di occuparsi di America Latina e di trovare in essa possibili modelli di riferimento (decretando così la fine del cosiddetto terzomondismo). Vi è stata, successivamente, una stagione felice per la quale venne utilizzata la definizione di “socialismo latinoamericano”, inaugurata dalla rivoluzione bolivariana in Venezuela, da un presidente indio d’ispirazione socialista in Bolivia, da un nuovo corso in Ecuador, e per finire, dall’elezione alla presidenza della repubblica dell’ex leader dei tupamaros Pepe Mujica in Uruguay, sempre entro una prospettiva democratico-parlamentare. Ma con l’esaurirsi della grande stagione rivoluzionaria e post-rivoluzionaria iniziata con la vittoria della rivoluzione cubana (1959) e consumatasi con la morte di Hugo Chavez in Venezuela (2013) e il conseguente declino del chavismo con l’arrivo al potere del delfino Nicolas Maduro, fino all’attuale crisi politico umanitaria, si era già smarrita quella centralità politica che l’America Latina aveva rappresentato per la sinistra europea. Con la vittoria delle destre nei paesi del Cono Sur come Cile e Argentina, passando attraverso la rivoluzione sandinista in Nicaragua (1980), anch’essa risoltasi in una progressiva regressione autoritaria, per non parlare della sconfitta del Partito dei Lavoratori di Ignacio Lula Da Silva in Brasile e di Dilma Rousseff (2016) che porta al potere il generale ed estremista di destra Jair Bolsonaro, e la più recente caduta di Evo Morales in Bolivia, dopo tre mandati presidenziali (novembre 2019), non solo ci troviamo di fronte al definitivo esaurirsi dell’influenza del modello rivoluzionario (castrismo, sandinismo, chavismo, sono ormai diventati indicatori storici di una prassi rivoluzionaria difficilmente riproponibile), ma anche nella difficoltà di trovare nuove soluzioni politiche in grado di combattere corruzione e disuguaglianze generatrici di povertà ormai radicate nel tessuto sociale latinoamericano e non solo!…. Come si vede, una geografia continentale in costante instabilità determinata dall’influenza del mercato globale, rispetto ai regimi fascisti (succedutisi tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso), che garantivano stabilità esercitando metodicamente la violenza come negazione delle libertà individuali e collettive. Si tratta, in fondo, della natura stessa della nuova economia globale che fallisce proprio laddove, paradossalmente, pretendendo una stabilità democratica, crea, invece, attraverso una politica costantemente basata sull’iniquità, le condizioni per repentini cambiamenti di governo. Oggi, tuttavia, i segnali provenienti dall’Argentina, dove la sconfitta di Mauricio Macrì e il ritorno dei peronisti pone una pietra tombale al più selvaggio dei governi neoliberisti e dal Cile dove la pressione governativa sull’economia è finalmente scoppiata in rivolta collettiva e trasversale, ci dicono che l’alternativa neoliberista, che in una prospettiva di mercato globale pareva fosse la soluzione ideale per l’emancipazione sociale ed economica delle masse del XXI° secolo, è solo un’illusione. Infatti, le politiche economiche che per la seconda volta trascinarono l’Argentina in una crisi al limite del collasso (la prima e più drammatica risale al 2001), portarono a un vero e proprio saccheggio morale e materiale del popolo argentino, (coraggiosamente documentato da due film documentari del regista Fernando Solanas, un dittico rappresentato da Diario del saccheggio, 2003 e La dignità degli ultimi, 2005), e che impongono, oggi, al Cile di Sebastian Piñera un cambiamento immediato se non radicale (auspicabilmente una transizione democratica verso nuove elezioni, da cui, quasi certamente, uscirebbe una coalizione governativa magari guidata dai socialisti). Tuttavia l’opposizione al presidente e al suo governo, forte delle moderate concessioni fatte in seguito alle proteste popolari, a una possibile rinuncia al proprio mandato, ha avuto come effetto la spaccatura tra le forze centriste e moderate e quelle della sinistra socialista e comunista. La “violencia” che si è abbattuta nel mese di novembre di quest’anno su Santiago e Valparaiso, talora perfino gratuita (con vessazioni e torture da parte di polizia e militari e della cui gravità la stampa italiana non ha parlato né con abbastanza lucidità, né tanto meno analisi e documentazione), tuttavia ha un segno preciso, quello della frustrazione e della rabbia verso una politica dell’ineguaglianza, volta ad aumentare il divario sociale ed economico tra una minoranza di ricchi e il resto della popolazione. La recente proposta di una nuova Costituzione (quella attualmente vigente risale al 1980) ha i suoi sostenitori, sia nel parlamento cileno (dove sono coinvolte tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione), che tra gli osservatori stranieri ma anche alcune fondamentali critiche: innanzitutto perché tale proposta si rivela piuttosto tardiva e forse usata da Piñera per prendere tempo, e risolvere il problema della rivolta popolare con la guerriglia nelle strade. La questione, dunque, si rivela fin da subito piuttosto complessa, con in prospettiva un referendum popolare per la modifica della vigente costituzione o piuttosto della sua abrogazione e riscrittura. E’ importante che con la definizione e applicazione di nuove leggi, si ridia al popolo cileno il diritto alla salute e all’educazione gratuite e tutte le libertà degne di una democrazia matura. Diritti, questi, che il dittatore Pinochet aveva negato con un colpo di mano, un giorno prima del cambio regime (11 marzo 1990). Si tratta pur sempre di segnali che comunque non consentono di formulare una visione generale del continente, che omogenea non è e non può esserlo in tempi, come si è detto, di profonda instabilità. Quanto alla Bolivia, invece, la debolezza di Morales, questo suo non aver indicato un possibile successore dotato di qualche carisma e quindi, tentato di prolungare oltre le leggi vigenti, il proprio mandato che non significa necessariamente, in questo caso, avviare un processo autoritario dominato da un presunto culto della personalità, ha drammaticamente rivelato un disegno golpista, subito raccolto dall’esercito che ha destituito il presidente. Non bisogna dimenticare che con Evo Morales erano di gran lunga migliorate le condizioni materiali e sociali del popolo boliviano, soprattutto quello extraurbano delle campagne e delle aree più impervie, nonostante si parli sempre più spesso di tentazione autoritaria da parte del suo governo e di attentati contro l’ambiente (lo sfruttamento dell’Amazonas boliviano come possibile risorsa alimentare etc., vagamente su modello Bolsonaro). Va ricordato, inoltre, che l’esito, forse, più originale del presidente “cocalero” (di cui viene raccontata la campagna elettorale che lo porterà alla vittoria elettorale nel film, appunto intitolato Cocalero di Alejandro Landes, 2007), fu quello di unificazione di tutte le tribù indigene del paese, cambiandone perfino la denominazione in “Stato plurinazionale della Bolivia” e altresì dimostrando che sono esse la vera anima della nazione. Per la prima volta nella storia politica latinoamericana un indio (Morales) e un semplice operaio (Lula), assurgevano al ruolo di presidente della repubblica! Quanto tale evidenza colpì l’immaginario politico occidentale europeo lo si può facilmente cogliere nel forte significato simbolico attribuitole, quasi a voler rifondare una nuova idea di populismo di sinistra. Un altro esempio di buon governo ci viene dall’Uruguay dove l’eredità politica e morale di Pepe Mujica non è ancora stata disattesa sebbene alle ultime elezioni (novembre 2019) la distanza tra il suo partito e quello d’opposizione sia stata rovesciata al punto di far prevalere l’opposizione di centro-destra. Un dato che potrebbe essere letto come un paradosso se non fosse che in politica, il prevalere delle alleanze nel cartello elettorale, possa, invece, significare che il risultato non corrisponda alla volontà della maggioranza reale del paese.
Ecco, dunque, che l’America Latina va nuovamente in fiamme, ma non sono le fiamme prodotte dalle bombe che divamparono nel palazzo della Moneda dove, in quell’11 settembre del 1973, Salvador Allende oppose la sua strenua resistenza alla barbarie fascista che la borghesia locale finse di non vedere o perfino approvò in nome del più ottuso anticomunismo, dal momento che Allende non era né avrebbe mai potuto essere in ostaggio dell’estrema sinistra, né tanto meno di Fidel Castro che pure stimava e del quale ammirava la tenacia rivoluzionaria. Come si vede, in un’età sempre più incerta e minacciosa, e in questa parte del mondo, si perpetua l’eterno conflitto tra la visione neoliberista e quella socialista della società contemporanea. Ciò che ancora differenzia l’Europa dall’America Latina è proprio il fatto che mentre in quest’ultima il socialismo odierno è il figlio riformista delle grandi esperienze rivoluzionarie continentali (Messico, Cuba, Nicaragua) e del socialismo cileno dell’Unidad Popular, in Europa, dove il socialismo è nato, tale opzione politica, purtroppo, pare sempre di più allontanarsi dalla contemporaneità, optando (in larga misura ad Est) per una terza via, quella del nazionalismo sovranista, mentre a Ovest, il neoliberismo europeista (con l’eccezione, forse della Gran Bretagna di Corbyn, il labour radicale), sembra proprio farla da padrone. Da tempo, ormai, Latinoamerica ha interrotto le pubblicazioni, e le prime pagine dei maggiori quotidiani faticano a occuparsi di un continente così eternamente subdesarollado. A meno che non si parli, quasi mai con rigore e obiettività, della “tirannia bolivariana” del Venezuela post-chavista, del conseguente disastro umanitario e di una mezza figura di politico cresciuto all’ombra degli Stati Uniti, che ancora insiste nell’autoproclamarsi presidente, dunque, stimolando gli appetiti politici internazionali e i nostri, ben sapendo quanto alta sia la posta in gioco…!